Stanza #11
Superai la soglia della stanza numero dieci e, prima di richiuderla per sempre alle mie spalle, guardai ancora una volta al suo interno. Non c’era più alcuna traccia della giovane donna insanguinata. Pazzia o no, quella donna mi aveva stregato. Il suo corpo elegante e sensuale, prima e dopo il bagno di sangue, era stato come un sogno peccaminoso diventato realtà. Quei movimenti passionali e graziosi l’avevano resa irresistibilmente eccitante, ma mai volgare. C’era stata una macabra magia in lei.
Accantonai per un istante la sua immagine con un grande sforzo. Mi sentivo come un ragazzino che aveva appena scoperto un sito pornografico.
Passai una mano sulla mia guancia e il polpastrello scivolò sui solchi che le lacrime corrosive avevano lasciato. Ora il mio volto era in tutto e per tutto come quello dell’uomo nella stanza numero sette. Avevo una teoria. Io ero nato sotto il segno della Bilancia, segno che governa la settima casa. Probabilmente al termine di tutto ciò, mi sarebbe spettato il titolo di padrone della settima stanza. Quella appartenente al mio segno. Tuttavia, non era una certezza. Chissà come sarebbe stato…
Risalii per la scala alla destra del muro e raggiunsi la porta della stanza numero undici. L’orologio era raffigurato all’interno della coda di una sirena, il simbolo dell’Acquario. Le lancette segnavano le undici e cinquantacinque.
Entrai e fui avvolto dall’oscurità più totale.
Non c’era alcun rumore in quella stanza, fatta eccezione per quello che emettevano i battiti del mio cuore e i miei respiri. Non fu piacevole, perché più stranezze conosci o superi e più stranezze nasceranno nella tua mente in assenza di luce e suoni. E in quel momento la mia mente, di cui ormai non avevo più alcun controllo, stava vagando senza limitazioni.
Pochi istanti dopo, la voce metallica mi accolse come ogni altra volta. Non riconobbi la lingua, sono sicuro di non aver nemmeno mai sentito qualcosa di simile. Sembrava un misto tra l’inglese e il francese pronunciato con l’accento e la cadenza tipica del tedesco. Mi accorsi per la prima volta che ormai il mio cervello si era adattato a quella voce e ora sembrava meno elettronica e più umana.
Delle rettangolari luci al neon sfarfallorono prima di accendendersi del tutto, investendo l’oscurità con il loro bianco bagliore. Quella che comparve era l’esatta riproduzione di un’aula scolastica. C’erano circa una quindicina di banchi e una cattedra. Tutto, fatta eccezione per il pavimento, era composto di metallo. Rame, a giudicare dal colore.
Un uomo sulla cinquantina, dal fisico robusto e con un abito elegante, sedeva dietro la scrivania. Guardava i ragazzi davanti a sé con occhi schifati, come se ognuno di loro non fosse altro che un sudicio rifiuto. I giovani studenti erano seduti su sedie elettriche. Spesse fasce di cuoio gli bloccavano le caviglie e i polsi.
Lui non sembrò notarmi, tuttavia i ragazzi si voltarono verso di me, implorando aiuto. Le loro voci erano rotte e disperate. Durarono pochi secondi, poi vennero sostituite da urla impazzite.
L’uomo alla scrivania abbassò una leva posta accanto alla scrivania e una scarica elettrica attraversò per un istante i corpi dei ragazzi che, per quanto possibile, si contorsero in una serie di spasmi. I tendini del viso e del collo si contrassero trasformando i loro volti in maschere di dolore. Le mani si richiusero con forza, come se volessero stritolare l’aria. Quando la scarica cessò, i loro occhi tornarono su di me. Erano pieni di supplica.
Non si parla durante la lezione, strillò l’uomo rivolgendosi agli ai ragazzi, dopo aver interrotto il flusso di elettricità, spero di essere stato chiaro.
Osservai gli occhi dei giovani, così colmi di frustrazione e desiderosi di vendetta. A loro non importava essere liberati, quello era solo un passaggio obbligatorio per raggiungere il loro l’ultimo obiettivo, loro volevano vendetta.
Non vi mentirò. A me non importava assolutamente nulla di chi soffrisse o di chi avesse ragione. Io volevo raggiungere la stanza numero dodici e basta. Ed ora ero solo a un passo…
Attesi qualche minuto in silenzio. Ci furono ancora un paio di richieste d’aiuto, non di più, in quanto ad ogni richiesta la scarica elettrica si intensificava e prolungava. I minuti passarono e non successe nulla. Era proprio quello che volevo vedere. Ora che avevo capito come agire potevo procedere. Mi avvicinai al professore camminando il più silenziosamente possibile. Era grosso e robusto, ma per fortuna molto più lento rispetto a me, altrimenti non avrei avuto possibilità. Mi avvinghiai al suo collo prima che potesse accorgersi della mia presenza e non mollai la presa fino a quando non cadde a terra privo di sensi. Non fu per nulla facile resistere agli scossoni di quell’uomo di quasi cento chili. Reso inoffensivo l’uomo, liberai dalle cinghie alcuni ragazzi e, prima di liberare tutti gli altri, legammo l’uomo ad una delle sedie elettriche.
Appena liberati i ragazzi iniziarono a schiaffeggiare il loro professore per accelerarne il risveglio. Il rumore secco degli schiaffi riecheggiava nella stanza condito dalle risate e dai versi incomprensibili dell’emozione.
Emozione che raggiunse il suo culmine quando l’uomo rinvenne. I ragazzi osservarono i suoi occhi colmi di terrore e disorientamento, accompagnando con un verso di stupore e meraviglia. Sembrava fossero davanti alla loro rockstar preferita. Il professore protestò e non appena le parole uscirono dalla sua bocca l’elettricità iniziò ad entrargli in corpo.
Cominciò a contorcersi, mentre la testa schizzava da un lato all’altro con movimenti così rapidi ed energici che immaginai l’osso del collo spezzarsi in mille pezzi. Tentò di gridare ma dalla sua gola uscirono solo versi strozzati simili a rantolii, che si persero nelle risate gioiose dei ragazzi che si godevano lo spettacolo. I tendini e nervi trasformarono il suo viso in una maschera deforme, come accaduto ai ragazzi prima di lui. Tentò inutilmente di liberarsi dalle cinghie di cuoio. La pelle iniziò a sfrigolare, annerendosi e pochi minuti dopo prese fuoco. I ragazzi, che fino a prima ridevano come folli, erano troppo vicini all’uomo e vennero avvolti dalle fiamme. Dal fuoco si sollevarono grida, lamenti e risate indescrivibili. L’odore di carne bruciata impregnò la stanza in pochi secondi. Corsi verso l’angolo più lontano. Non potevo morire ora. Quando le fiamme divorarono il corpo dell’uomo e dei ragazzi, una gelida brezza invase la stanza estinguendole. Portò via con sé anche il nauseabondo odore di carne e le ceneri dei corpi.
Fu come il respiro della morte che attende dietro il sipario, la brezza fresca e leggera prima della tempesta.
Quando tutto fu nuovamente a posto e in silenzio la porta successiva si mostrò ai miei occhi.
La stanza numero dodici mi aspettava.
La fine era dietro quella porta.