Stanza #12
La porta della stanza numero
dodici era davanti a me. Osservavo quel rettangolo di ferro arrugginito come se
fossero i cancelli del paradiso o dell’inferno. Tuttavia non avrei trovato ne
San Pietro ne Satana al di là di essa, soltanto lui e soltanto se il mio
ragionamento era giusto. L’orologio era esattamente al centro della porta
avvolto dai due pesci che indicavano l’ultimo segno dello zodiaco. Entrambe le
lancette erano ferme sul dodici. Sempre sei pensai, ma stavolta dovetti
ragionare un po’ di più. Per i primi minuti la mia mente si era fermata sul
fatto che le lancette segnassero le 12:00. Dividendo il dodici per se stesso si
otteneva uno e non sei. Solo dopo arrivai al ragionamento concreto. Quello che
le lancette indicavano come 00 non era altro che il sessantesimo minuto, quindi
interpretandolo come tale si otteneva settantadue che diviso dodici, dava sei.
Osservai quella porta per parecchi minuti. Vecchi ricordi tornarono davanti a me. Quello che era nato come un incubo si era trasformato in sogno e il sogno stava tornando incubo. Tutta la determinazione che avevo avuto fino a qualche attimo prima era svanita. Mi sentivo come un castello di carte posto di fronte ad una finestra aperta. Un soffio e sarebbe stata la fine. Sentivo il cuore martellarmi in gola. Paura ed esaltazione si alternavano dentro di me in una danza macabra e disarmonica. Accantonai con forza tutti i dubbi e i pensieri che si accoppiassero tra loro, moltiplicandosi senza fine. Afferrai la maniglia ed entrai.
La stanza era illuminata da una luce biancastra, così timida che pensai potesse venire assorbita dall’oscurità da un momento all’altro.
La voce elettronica parlò.
Benvenuto al tuo ultimo spettacolo. Spero sia di tuo gradimento.
La lingua era tornata ad essere l’inglese, ma riconobbi quella cadenza, quel modo di pronunciare la parola Welcome. Era la voce di mio nonno. Non potevo sbagliarmi. Lui era qui, come avevo pensato. Era nato il ventidue febbraio, quindi sotto il segno dei Pesci.
Dopo il messaggio di benvenuto tutto cominciò.
Una bolla d’acqua mi avvolse, impendendomi ogni tipo di movimento. La stanza si rischiarò. Sul fondo notai una scrivania, ricoperta da una moltitudine di fogli stracciati e una piccola libreria. Una persona era seduta davanti ad essa, volgendomi le spalle. Aveva un fisico robusto e i capelli pettinati all’indietro cominciavano a diradarsi e a tingersi di bianco. Riconobbi mio nonno e la sua stanza. In quel momento la paura venne cancellata da un senso di sollievo. Pensavo di averlo ucciso all’interno della stanza numero sette, invece non era stato così. Avrei voluto abbracciarlo.
Osservava i fogli davanti a se, tenendosi la testa tra le mani, in una posa colma di disperazione e frustrazione. Aprì il cassetto della scrivania e ne tirò fuori una bottiglia. Svitò il tappo e comincio a bere con gusto. In pochi secondi il liquido trasparente era dimezzato e la bottiglia posata sulla scrivania. Mio nonno si alzò di colpo e prese un libro dalla libreria in legno. Non riuscì a leggerne il titolo. Diede una rapida occhiata poi lo scaraventò, colpendo la bottiglia e facendo finire entrambi in terra. Il resto del liquido si sparse sul tappeto e l’odore di grappa invase la stanza.
Il nonno prese una penna e iniziò a scrivere. Appena la punta della stilografica cominciò a imprimere parole sul foglio bianco, dalla bottiglia vuota iniziò a uscire un fumo grigiastro. Strisciò sul pavimento, come un serpente gassoso, portandosi alle spalle di mio nonno. Lui era concentrato sul pezzo di carta davanti a lui e non si accorse di nulla. Provai a gridare nel tentativo di avvisarlo ma fu inutile. Non poteva sentirmi. Continuava a scrivere sempre più velocemente e un altro serpente di fumo uscì dalla bottiglia vuota e strisciò dietro di lui. Poi ne venne fuori un terzo. Col passare del tempo i tre serpenti di fumo cominciarono ad assumere delle forme e delle identità. Uno diventò un lupo mannaro. Aveva il pelo nero scuro, macchiato di un rosso perlaceo e aveva due fauci colme di zanne lunghe e affilati al posto delle mani. Gli occhi erano scintillanti come rubini. Il secondo mutò in un gigantesco golem umano di almeno tre metri, composto da migliaia di piedi cuciti tra di loro. Tutte le unghie erano state sradicate e rivoli di sangue scorrevano ancora lungo la pelle come dense lacrime. Il terzo cambiò il suo aspetto in un rettile dalla forma di un coccodrillo. Il corpo tuttavia era un lingua gigantesca corazzata per mezzo di alcuni denti appuntiti lunghi almeno una trentina di centimetri. Le zampe era state sostituite da braccia umane.
In un attimo d’isteria accartocciò il foglio e lo gettò in terra.
I mostri cominciarono a gridare, fiondandosi su di lui con una furia cieca. Il golem afferrò mio nonno per le spalle e lo gettò sul coccodrillo-lingua. I denti argentati gli affondarono nella schiena e schizzarono fuori dal petto colorati di rosso. Gridò così forte che temetti di sentire collassare la Torre su se stessa. Il sangue iniziò a schizzare fuori dalle ferite, riversandosi sulla lingua mostruosa. L’essere immondo iniziò ad assorbire il sangue come una spugna, espandendosi sempre di più. I denti sulla schiena iniziarono a pulsare, come enormi pungiglioni, mentre dissanguavano la loro vittima. Il colorito rosa del mostro diventò sempre più scuro fino ad assumere una tonalità vermiglia. Quando ebbe finito di nutrirsi si distese per terra, piegando le braccia verso l’alto. Il rumore secco delle ossa che si spezzano accompagnò quel movimento. Ora sembrava un ragno con le zampe al contrario. Afferrò i resti di mio nonno con le mani e tirò con forza, strappandolo in due. I denti-pungiglione avevano lavorato talmente bene che non cadde nemmeno una goccia di sangue. Il golem e il lupo si lanciarono sulle due metà.
D’istinto chiusi gli occhi, non fu una buona idea. I pensieri scaturiti dalla mia mente furono peggio della realtà che vidi nel momento in cui li riaprii.
Il golem stava pestando furiosamente le gambe sulla sua metà. Le ossa si frantumarono in pezzi minuscoli, simili a grossi granelli di zucchero. Finito il processo di “macinazione” il golem si chinò sui resti maciullati e cominciò a leccare la polvere d’ossa. La lingua era un piede che pendeva flaccido al di fuori della bocca. Leccava con avidità, spingendosi quel macabro zucchero in bocca con le grosse mani. Finita la farina ossea il golem emise un verso raccapricciante. Sembrava il lamento di una miriade di bambini dati alle fiamme.
Afferrò i resti disossati e li avvicinò alla bocca, risucchiandoli poi come se fossero succo, provocando un rumore disgustoso. Non rischiai di vomitare solo perché ormai il mio stomaco si era rinforzato abbastanza.
Nel frattempo anche il lupo mannaro si godeva la sua parte. Le tre fauci si fiondavano sul corpo di mio nonno senza freni. Strappavano e masticavano, strappavano e masticavano. Le ossa venivano spezzate dalle zanne affilate come se fossero stuzzicadenti. Il rumore emesso dal lupo durante la masticazione era strano e osceno, come se stesse masticando un grosso pezzo di gomma ripieno di frammenti di vetro. Riuscivo a vedere nei suoi occhi animaleschi l’esaltazione e la soddisfazione nel gustarsi il pasto che gli era stato offerto. Divorò ogni cosa, senza lasciare nemmeno una minuscola parte del corpo di mio nonno. Finito il pasto alzò la testa verso il soffitto e ululò. Un ululato demoniaco e infernale, caricò di sadismo. Il verso del lupo si mescolò con quello del golem, dando vita ad un suono che è impossibile da descrivere, ma così intenso e angosciante che da giungere direttamente all’interno della mia anima.
I tre esseri mostruosi scomparirono nel nulla, insieme alla prigione d’acqua.
Davanti a me comparvero tredici porte. La porta centrale aveva un orologio semplice, con le lancette ferme sul dodici. Le sei porte alla sua destra erano quella dell’Ariete, del Toro, dei Gemelli, del Cancro, del Leone e della Vergine. Alla sinistra c’erano quella della Bilancia, dello Scorpione, del Sagittario, del Capricorno, dell’Acquario e dei Pesci.
Partendo da quella dell’Ariete le porte si illuminarono una ad una, librandosi nell’aria e fondendosi con quella centrale. Le lancette dell’orologio si spostavano entrambe sul numero delle porta che veniva assorbita. Quando la porta dei Pesci fu assimilata e le lancette tornarono sul dodici, l’orologio esplose in uno schizzo di sangue, rivelando il simbolo dell’Omega.
Omega, l’ultima lettera dell’alfabeto greco, il simbolo della fine e l’ultima stanza.
Afferrai la maniglia e fu come se migliaia di demoni entrassero nel mio corpo. Tremai in preda a un panico incommensurabile. Mi feci forza e aprii.
Una volta dentro non credetti ai miei occhi…
Osservai quella porta per parecchi minuti. Vecchi ricordi tornarono davanti a me. Quello che era nato come un incubo si era trasformato in sogno e il sogno stava tornando incubo. Tutta la determinazione che avevo avuto fino a qualche attimo prima era svanita. Mi sentivo come un castello di carte posto di fronte ad una finestra aperta. Un soffio e sarebbe stata la fine. Sentivo il cuore martellarmi in gola. Paura ed esaltazione si alternavano dentro di me in una danza macabra e disarmonica. Accantonai con forza tutti i dubbi e i pensieri che si accoppiassero tra loro, moltiplicandosi senza fine. Afferrai la maniglia ed entrai.
La stanza era illuminata da una luce biancastra, così timida che pensai potesse venire assorbita dall’oscurità da un momento all’altro.
La voce elettronica parlò.
Benvenuto al tuo ultimo spettacolo. Spero sia di tuo gradimento.
La lingua era tornata ad essere l’inglese, ma riconobbi quella cadenza, quel modo di pronunciare la parola Welcome. Era la voce di mio nonno. Non potevo sbagliarmi. Lui era qui, come avevo pensato. Era nato il ventidue febbraio, quindi sotto il segno dei Pesci.
Dopo il messaggio di benvenuto tutto cominciò.
Una bolla d’acqua mi avvolse, impendendomi ogni tipo di movimento. La stanza si rischiarò. Sul fondo notai una scrivania, ricoperta da una moltitudine di fogli stracciati e una piccola libreria. Una persona era seduta davanti ad essa, volgendomi le spalle. Aveva un fisico robusto e i capelli pettinati all’indietro cominciavano a diradarsi e a tingersi di bianco. Riconobbi mio nonno e la sua stanza. In quel momento la paura venne cancellata da un senso di sollievo. Pensavo di averlo ucciso all’interno della stanza numero sette, invece non era stato così. Avrei voluto abbracciarlo.
Osservava i fogli davanti a se, tenendosi la testa tra le mani, in una posa colma di disperazione e frustrazione. Aprì il cassetto della scrivania e ne tirò fuori una bottiglia. Svitò il tappo e comincio a bere con gusto. In pochi secondi il liquido trasparente era dimezzato e la bottiglia posata sulla scrivania. Mio nonno si alzò di colpo e prese un libro dalla libreria in legno. Non riuscì a leggerne il titolo. Diede una rapida occhiata poi lo scaraventò, colpendo la bottiglia e facendo finire entrambi in terra. Il resto del liquido si sparse sul tappeto e l’odore di grappa invase la stanza.
Il nonno prese una penna e iniziò a scrivere. Appena la punta della stilografica cominciò a imprimere parole sul foglio bianco, dalla bottiglia vuota iniziò a uscire un fumo grigiastro. Strisciò sul pavimento, come un serpente gassoso, portandosi alle spalle di mio nonno. Lui era concentrato sul pezzo di carta davanti a lui e non si accorse di nulla. Provai a gridare nel tentativo di avvisarlo ma fu inutile. Non poteva sentirmi. Continuava a scrivere sempre più velocemente e un altro serpente di fumo uscì dalla bottiglia vuota e strisciò dietro di lui. Poi ne venne fuori un terzo. Col passare del tempo i tre serpenti di fumo cominciarono ad assumere delle forme e delle identità. Uno diventò un lupo mannaro. Aveva il pelo nero scuro, macchiato di un rosso perlaceo e aveva due fauci colme di zanne lunghe e affilati al posto delle mani. Gli occhi erano scintillanti come rubini. Il secondo mutò in un gigantesco golem umano di almeno tre metri, composto da migliaia di piedi cuciti tra di loro. Tutte le unghie erano state sradicate e rivoli di sangue scorrevano ancora lungo la pelle come dense lacrime. Il terzo cambiò il suo aspetto in un rettile dalla forma di un coccodrillo. Il corpo tuttavia era un lingua gigantesca corazzata per mezzo di alcuni denti appuntiti lunghi almeno una trentina di centimetri. Le zampe era state sostituite da braccia umane.
In un attimo d’isteria accartocciò il foglio e lo gettò in terra.
I mostri cominciarono a gridare, fiondandosi su di lui con una furia cieca. Il golem afferrò mio nonno per le spalle e lo gettò sul coccodrillo-lingua. I denti argentati gli affondarono nella schiena e schizzarono fuori dal petto colorati di rosso. Gridò così forte che temetti di sentire collassare la Torre su se stessa. Il sangue iniziò a schizzare fuori dalle ferite, riversandosi sulla lingua mostruosa. L’essere immondo iniziò ad assorbire il sangue come una spugna, espandendosi sempre di più. I denti sulla schiena iniziarono a pulsare, come enormi pungiglioni, mentre dissanguavano la loro vittima. Il colorito rosa del mostro diventò sempre più scuro fino ad assumere una tonalità vermiglia. Quando ebbe finito di nutrirsi si distese per terra, piegando le braccia verso l’alto. Il rumore secco delle ossa che si spezzano accompagnò quel movimento. Ora sembrava un ragno con le zampe al contrario. Afferrò i resti di mio nonno con le mani e tirò con forza, strappandolo in due. I denti-pungiglione avevano lavorato talmente bene che non cadde nemmeno una goccia di sangue. Il golem e il lupo si lanciarono sulle due metà.
D’istinto chiusi gli occhi, non fu una buona idea. I pensieri scaturiti dalla mia mente furono peggio della realtà che vidi nel momento in cui li riaprii.
Il golem stava pestando furiosamente le gambe sulla sua metà. Le ossa si frantumarono in pezzi minuscoli, simili a grossi granelli di zucchero. Finito il processo di “macinazione” il golem si chinò sui resti maciullati e cominciò a leccare la polvere d’ossa. La lingua era un piede che pendeva flaccido al di fuori della bocca. Leccava con avidità, spingendosi quel macabro zucchero in bocca con le grosse mani. Finita la farina ossea il golem emise un verso raccapricciante. Sembrava il lamento di una miriade di bambini dati alle fiamme.
Afferrò i resti disossati e li avvicinò alla bocca, risucchiandoli poi come se fossero succo, provocando un rumore disgustoso. Non rischiai di vomitare solo perché ormai il mio stomaco si era rinforzato abbastanza.
Nel frattempo anche il lupo mannaro si godeva la sua parte. Le tre fauci si fiondavano sul corpo di mio nonno senza freni. Strappavano e masticavano, strappavano e masticavano. Le ossa venivano spezzate dalle zanne affilate come se fossero stuzzicadenti. Il rumore emesso dal lupo durante la masticazione era strano e osceno, come se stesse masticando un grosso pezzo di gomma ripieno di frammenti di vetro. Riuscivo a vedere nei suoi occhi animaleschi l’esaltazione e la soddisfazione nel gustarsi il pasto che gli era stato offerto. Divorò ogni cosa, senza lasciare nemmeno una minuscola parte del corpo di mio nonno. Finito il pasto alzò la testa verso il soffitto e ululò. Un ululato demoniaco e infernale, caricò di sadismo. Il verso del lupo si mescolò con quello del golem, dando vita ad un suono che è impossibile da descrivere, ma così intenso e angosciante che da giungere direttamente all’interno della mia anima.
I tre esseri mostruosi scomparirono nel nulla, insieme alla prigione d’acqua.
Davanti a me comparvero tredici porte. La porta centrale aveva un orologio semplice, con le lancette ferme sul dodici. Le sei porte alla sua destra erano quella dell’Ariete, del Toro, dei Gemelli, del Cancro, del Leone e della Vergine. Alla sinistra c’erano quella della Bilancia, dello Scorpione, del Sagittario, del Capricorno, dell’Acquario e dei Pesci.
Partendo da quella dell’Ariete le porte si illuminarono una ad una, librandosi nell’aria e fondendosi con quella centrale. Le lancette dell’orologio si spostavano entrambe sul numero delle porta che veniva assorbita. Quando la porta dei Pesci fu assimilata e le lancette tornarono sul dodici, l’orologio esplose in uno schizzo di sangue, rivelando il simbolo dell’Omega.
Omega, l’ultima lettera dell’alfabeto greco, il simbolo della fine e l’ultima stanza.
Afferrai la maniglia e fu come se migliaia di demoni entrassero nel mio corpo. Tremai in preda a un panico incommensurabile. Mi feci forza e aprii.
Una volta dentro non credetti ai miei occhi…