Stanza #2
No.
Era ovvio che lo spettacolo non fosse stato di mio gradimento, ma era altrettanto ovvio che indipendentemente da questo non avevo scelta se non proseguire. Quanto avrei voluto tornare indietro, a prima di leggere quella maledetta lettera che mi ha portato sino a qui. Dannata sia la mia curiosità. Ancora inginocchiato al suolo, con scintille d’orrore negli occhi, guardai verso la nuova porta. La stanza era tornata spoglia com’era stata in principio ma nell’aria si poteva sentire ancora l’acre odore del sangue e delle benzina. Nella mia mente, in maniera del tutto involontaria, avevo cominciato a cercare di razionalizzare quanto appena accaduto. Pensai ad una proiezione tridimensionale realizzata in modo così perfetto da sembrare reale, ma l’idea non mi convinceva. Era troppo reale, per essere una proiezione. Esclusi a priori l’ipotesi di un brutto incubo. Non ricordavo di essermi addormentato e sono sicuro di non essermi risvegliato. Me ne sarei accorto. Quindi cosa diamine era avvenuto in quella stanza? Nonostante il mio cinismo la mente vagò per suo conto verso una nuova soluzione. Una reminiscenza. Letteralmente una reminiscenza è un ricordo vago di qualcuno lontano nel tempo e che è quasi stato dimenticato. Potrebbe essere che l’energia di qualcosa avvenuto moltissimo tempo fa, sia rimasta intrappolata all’interno della Torre e si manifesti ad ogni visitatore. Scrollai la testa cercando di annullare ogni pensiero. Tanto era inutile. Avrei solo alimentato la mia fantasia e al momento mi era impossibile avere una risposta. Nel scacciare via i miei dubbi, ne sopraggiunse un altro. Cosa ci sarebbe stato nelle altre undici stanze? Una parte di me era convinta che sarebbero state “innocue” come la prima, mentre l’altra metà era certa che sarebbero stato più pericolose.
L’unico modo per scoprirlo era proseguire. Daltronde se indietro non si può tornare, avanti bisogna andare. A meno che non si voglia rimanere fermi ad aspettare che la Nera Mietitrice venga a mettere fine alla nostra misera e inutile vita.
Mi rialzai in piedi e camminai verso la porta. Afferrai la fredda maniglia di ferro e tirai. I cardini arrugginiti cigolarono. Solo dopo aver aperto la porta e aver visto il macabro spettacolo che si prestava ai miei occhi, notai un qualcosa che fino ad ora mi era sfuggito. Stando alla piantina che avevo osservato al primo piano, dopo ogni stanza c’erano delle scale. Tuttavia non c’era un altra stanza, le scale erano esterne all’edificio.Quello che non avevo considerato in quel momento, era che l’esterno della struttura era interamente ricoperto di cadaveri umani. Ed ora eccoli li. Quella che da fuori sembrava un macabro rivestimento, rivelava invece un meccanismo molto più preciso e cruento. I cadaveri erano impilati l’uno sopra all’altro in maniera ordinata. Quello sopra poggiava con i piedi sulle spalle di quello sotto. La pelle sulle loro schiene era aperta come una cerniera. Catene con uncini ad entrambe le estremità fungevano da fissaggio. Il primo uncino era agganciato in modo saldo a degli occhielli che sporgevano di qualche centimetro dalle mura della struttura. Il secondo uncino era attaccato direttamente alle ossa del defunto. Gli organi interni erano stati rimossi e all’interno di ogni scheletro vuoto, c’era una barra verticale di metallo. Verso metà, c’era una fessura nella quale era inserita una piccola candela che illuminava con la sua flebile fiammella. Penserete che io sia pazzo, ma quella soffusa luce rossa in contrasto col lucido bianco delle ossa, rendeva quel macabro e cruento spettacolo, quasi affascinante.
Varcai la soglia della porta, mettendo piede sull’impalcatura che sorreggeva tutti quei cadaveri e procedetti verso la rampa di scale che portava al piano di sopra.
Subito dopo mi trovai di fronte a una porta. Sullo stipite c’era un orologio a forma di toro. Le lancette erano entrambe ferme sul numero 2. Avevo una paura fottuta ma, come ho già detto, non potevo tornare indietro. Afferai la maniglia e il freddo del ferro mi scese lungo la schiena come un ragno di ghiaccio. La saliva si trasformò in pietra. La respirazione si era fatta pesante, come se l’aria improvvisamente fosse diventata polvere da sparo. Il cuore rallentò e per un attimo presi davvero in considerazione l’ipotesi di stare seduto ad aspettare la mia ora. Non avrebbe avuto alcun senso. Presi coraggio ed entrai.
La stanza numero due era ampia e luminosa. Le pareti erano lucide e sembravano di quarzo rosa. Al centro c’era un tavolo rettangolare in legno bianco con quattro sedie. Una a capotavola, una a destra e due a sinistra. Appoggiato su un centrino di pizzo bianco c’era un candeliere d’argento. Il fatto che tutto fosse così elegante e tranquillo, non mi aiutava affatto. Anzi...
Mi stavo avvicinando al tavolo, quando la voce metallica parlò.
Benvenuto nella stanza numero due. Spero che lo spettacolo sia di vostro gradimento. Come prima non sarà possibile lasciare la stanza fino al termine della spettacolo. Buona Visione.
Quando l’annuncio robotizzato cessò, un uomo apparve dalla parete in fondo. Aveva i capelli corti e brizzolati e vestiva in modo elegante e raffinato. Reggeva nella mano destra una teiera e nella sinistra una tazza. Entrambe in porcellana decorata. Si accomodò a capotavola. Pochi istanti dopo entrò una donna, che si accomodò sulla sedia di destra. Il suo viso era emaciato e cinereo. Riuscì a cogliere il suo sguardo e non mi piace quello che vidi. Erano occhi distrutti dalla paura e dal dolore. L’uomo la guardò in modo altezzoso e insensibile. Capìì che sapeva perfettamente cosa aveva passato la donna e che lui la reputava una sciocchezza. L’uomo riempì la tazzina e la porse alla donna. Bevi, sussurrò in un tono che era un miscuglio tra il dolce e il glaciale, la voce di un innamorato che ha ormai raggiunto il limite. La donna obbedì. Portò la tazzina alla bocca e nel momento in cui la inclinò, fiumi di lacrime solcarono le sue guance. Tuttavia, non fermò il gesto e bevette. Quando ebbe finito, l’uomo prese la tazzina, la riempì di nuovo e stavolta fu lui a bere. Lui non pianse. Sorrise. Poi entrambi scomparvero.
Mi avvicinai alla tazzina. La paura non era passata, ma quella dannata curiosità che porto dentro fin dalla nascita, prese il sopravvento. Dovevo sapere. Afferrai la teiera e versai quello che rimaneva del contenuto nella tazza vuota. Quando vidì cos’era d’istinto lasciai cadere la teiera. Sangue. Feci un passo indietro. Una voce si insinuò nella mia testa. Era l’unisono di due voci infantili. Vedrai cosa ci è successo. Queste furono le uniche parole che dissero, poi il sangue si levò dalla tazza e rapido come un fulmine mi entrò negli occhi, provocandomi un bruciore immenso. Sentivo il sangue premere nel cervello come mani possenti. La testa iniziò girare e poco dopo persi i sensi.
La tavola era apparecchiata. L’uomo sedeva a capotavola, con la donna seduta alla sua destra e due bambini a sinistra. Un maschio e una femmina di circa sette anni. Cenarono come una famiglia felice. Giunti al termine l’uomo annunciò che in cantina aveva una sorpresa per tutti. I bambini esultarono e seguirono il padre, così fece la moglie. L’uomo aprì la porta e dopo aver fatto entrare tutti la richiuse dietro di sè. Con un calcio spinse la madre addosso ai bambini facendoli precipitare dalla scale. Piombò su di loro e colpendoli alla testa fino a fargli perdere i sensi. Legò la moglie alla colonna della cantina. Quando questa riprese conoscenza, non credette ai suoi occhi. I suoi cari figli erano fissati su un nastro trasportatore che conduceva a quello che sembrava un tritarifiuti enorme. I denti affilati di undici seghe circolari scintillavano nel buio oscuro di quella bocca metallica nata per disintegrare. Sei sopra e cinque sotto, distanziate l’una dall’altra di circa dieci centimetri.
No! Non farlo! Non...
Non fece in tempo a concludere la frase che l’uomo avviò il macchinario. Le seghe iniziarono a roteare, mentre si salivano e scendevano, riproducendo in tutto e per tutto il movimento di una bocca durante la masticazione. Una bocca con denti decisamente pericolosi. Il nastro iniziò a scorrere verso quelle fauci metalliche. Il clangore degli ingranaggi riecheggiava nella cantina. Pochi secondi dopo i bambini vennero inghiottiti dalla lame partendo dai piedi. Si percepì perfettamente il rumore delle ossa che si polverizzavano, sembrava il suono amplificato di quando si trapana un dente. Brandelli di carne schizzarono come proiettili in giro per la cantina, finendo addosso alle pareti e alla madre. Le urla dei bambini erano così strazianti che i lamenti dell’inferno al confronto sembravano i cori degli angeli.
Quando entrambi i bambini furono divorati dalla macchina, il padre estrasse da essa un catino, nel quale c’erano i resti del malefico esperimento. Verso il contenuto in un imbuto provvisto di filtro inserito nel collo di una damigiana e iniziò il travaso. Il sangue riempì la bottiglia di vetro trasparente con suo colore cremisi. L’uomo tolse l’imbuto e rigettò nel catino i pezzi di pelle e ossa sopravvissuti al trattamento della macchina. Verso un po’ di sangue all’interno di un bicchiere, lo assaggiò e poi lo versò in bocca alla moglie.
Dimmi, non è ottimo?
In quell’istante riaprii gli occhi.
Il tavolo scomparve e in fondo alla stanza apparve una porta.
La stanza numero tre mi attendeva.
Era ovvio che lo spettacolo non fosse stato di mio gradimento, ma era altrettanto ovvio che indipendentemente da questo non avevo scelta se non proseguire. Quanto avrei voluto tornare indietro, a prima di leggere quella maledetta lettera che mi ha portato sino a qui. Dannata sia la mia curiosità. Ancora inginocchiato al suolo, con scintille d’orrore negli occhi, guardai verso la nuova porta. La stanza era tornata spoglia com’era stata in principio ma nell’aria si poteva sentire ancora l’acre odore del sangue e delle benzina. Nella mia mente, in maniera del tutto involontaria, avevo cominciato a cercare di razionalizzare quanto appena accaduto. Pensai ad una proiezione tridimensionale realizzata in modo così perfetto da sembrare reale, ma l’idea non mi convinceva. Era troppo reale, per essere una proiezione. Esclusi a priori l’ipotesi di un brutto incubo. Non ricordavo di essermi addormentato e sono sicuro di non essermi risvegliato. Me ne sarei accorto. Quindi cosa diamine era avvenuto in quella stanza? Nonostante il mio cinismo la mente vagò per suo conto verso una nuova soluzione. Una reminiscenza. Letteralmente una reminiscenza è un ricordo vago di qualcuno lontano nel tempo e che è quasi stato dimenticato. Potrebbe essere che l’energia di qualcosa avvenuto moltissimo tempo fa, sia rimasta intrappolata all’interno della Torre e si manifesti ad ogni visitatore. Scrollai la testa cercando di annullare ogni pensiero. Tanto era inutile. Avrei solo alimentato la mia fantasia e al momento mi era impossibile avere una risposta. Nel scacciare via i miei dubbi, ne sopraggiunse un altro. Cosa ci sarebbe stato nelle altre undici stanze? Una parte di me era convinta che sarebbero state “innocue” come la prima, mentre l’altra metà era certa che sarebbero stato più pericolose.
L’unico modo per scoprirlo era proseguire. Daltronde se indietro non si può tornare, avanti bisogna andare. A meno che non si voglia rimanere fermi ad aspettare che la Nera Mietitrice venga a mettere fine alla nostra misera e inutile vita.
Mi rialzai in piedi e camminai verso la porta. Afferrai la fredda maniglia di ferro e tirai. I cardini arrugginiti cigolarono. Solo dopo aver aperto la porta e aver visto il macabro spettacolo che si prestava ai miei occhi, notai un qualcosa che fino ad ora mi era sfuggito. Stando alla piantina che avevo osservato al primo piano, dopo ogni stanza c’erano delle scale. Tuttavia non c’era un altra stanza, le scale erano esterne all’edificio.Quello che non avevo considerato in quel momento, era che l’esterno della struttura era interamente ricoperto di cadaveri umani. Ed ora eccoli li. Quella che da fuori sembrava un macabro rivestimento, rivelava invece un meccanismo molto più preciso e cruento. I cadaveri erano impilati l’uno sopra all’altro in maniera ordinata. Quello sopra poggiava con i piedi sulle spalle di quello sotto. La pelle sulle loro schiene era aperta come una cerniera. Catene con uncini ad entrambe le estremità fungevano da fissaggio. Il primo uncino era agganciato in modo saldo a degli occhielli che sporgevano di qualche centimetro dalle mura della struttura. Il secondo uncino era attaccato direttamente alle ossa del defunto. Gli organi interni erano stati rimossi e all’interno di ogni scheletro vuoto, c’era una barra verticale di metallo. Verso metà, c’era una fessura nella quale era inserita una piccola candela che illuminava con la sua flebile fiammella. Penserete che io sia pazzo, ma quella soffusa luce rossa in contrasto col lucido bianco delle ossa, rendeva quel macabro e cruento spettacolo, quasi affascinante.
Varcai la soglia della porta, mettendo piede sull’impalcatura che sorreggeva tutti quei cadaveri e procedetti verso la rampa di scale che portava al piano di sopra.
Subito dopo mi trovai di fronte a una porta. Sullo stipite c’era un orologio a forma di toro. Le lancette erano entrambe ferme sul numero 2. Avevo una paura fottuta ma, come ho già detto, non potevo tornare indietro. Afferai la maniglia e il freddo del ferro mi scese lungo la schiena come un ragno di ghiaccio. La saliva si trasformò in pietra. La respirazione si era fatta pesante, come se l’aria improvvisamente fosse diventata polvere da sparo. Il cuore rallentò e per un attimo presi davvero in considerazione l’ipotesi di stare seduto ad aspettare la mia ora. Non avrebbe avuto alcun senso. Presi coraggio ed entrai.
La stanza numero due era ampia e luminosa. Le pareti erano lucide e sembravano di quarzo rosa. Al centro c’era un tavolo rettangolare in legno bianco con quattro sedie. Una a capotavola, una a destra e due a sinistra. Appoggiato su un centrino di pizzo bianco c’era un candeliere d’argento. Il fatto che tutto fosse così elegante e tranquillo, non mi aiutava affatto. Anzi...
Mi stavo avvicinando al tavolo, quando la voce metallica parlò.
Benvenuto nella stanza numero due. Spero che lo spettacolo sia di vostro gradimento. Come prima non sarà possibile lasciare la stanza fino al termine della spettacolo. Buona Visione.
Quando l’annuncio robotizzato cessò, un uomo apparve dalla parete in fondo. Aveva i capelli corti e brizzolati e vestiva in modo elegante e raffinato. Reggeva nella mano destra una teiera e nella sinistra una tazza. Entrambe in porcellana decorata. Si accomodò a capotavola. Pochi istanti dopo entrò una donna, che si accomodò sulla sedia di destra. Il suo viso era emaciato e cinereo. Riuscì a cogliere il suo sguardo e non mi piace quello che vidi. Erano occhi distrutti dalla paura e dal dolore. L’uomo la guardò in modo altezzoso e insensibile. Capìì che sapeva perfettamente cosa aveva passato la donna e che lui la reputava una sciocchezza. L’uomo riempì la tazzina e la porse alla donna. Bevi, sussurrò in un tono che era un miscuglio tra il dolce e il glaciale, la voce di un innamorato che ha ormai raggiunto il limite. La donna obbedì. Portò la tazzina alla bocca e nel momento in cui la inclinò, fiumi di lacrime solcarono le sue guance. Tuttavia, non fermò il gesto e bevette. Quando ebbe finito, l’uomo prese la tazzina, la riempì di nuovo e stavolta fu lui a bere. Lui non pianse. Sorrise. Poi entrambi scomparvero.
Mi avvicinai alla tazzina. La paura non era passata, ma quella dannata curiosità che porto dentro fin dalla nascita, prese il sopravvento. Dovevo sapere. Afferrai la teiera e versai quello che rimaneva del contenuto nella tazza vuota. Quando vidì cos’era d’istinto lasciai cadere la teiera. Sangue. Feci un passo indietro. Una voce si insinuò nella mia testa. Era l’unisono di due voci infantili. Vedrai cosa ci è successo. Queste furono le uniche parole che dissero, poi il sangue si levò dalla tazza e rapido come un fulmine mi entrò negli occhi, provocandomi un bruciore immenso. Sentivo il sangue premere nel cervello come mani possenti. La testa iniziò girare e poco dopo persi i sensi.
La tavola era apparecchiata. L’uomo sedeva a capotavola, con la donna seduta alla sua destra e due bambini a sinistra. Un maschio e una femmina di circa sette anni. Cenarono come una famiglia felice. Giunti al termine l’uomo annunciò che in cantina aveva una sorpresa per tutti. I bambini esultarono e seguirono il padre, così fece la moglie. L’uomo aprì la porta e dopo aver fatto entrare tutti la richiuse dietro di sè. Con un calcio spinse la madre addosso ai bambini facendoli precipitare dalla scale. Piombò su di loro e colpendoli alla testa fino a fargli perdere i sensi. Legò la moglie alla colonna della cantina. Quando questa riprese conoscenza, non credette ai suoi occhi. I suoi cari figli erano fissati su un nastro trasportatore che conduceva a quello che sembrava un tritarifiuti enorme. I denti affilati di undici seghe circolari scintillavano nel buio oscuro di quella bocca metallica nata per disintegrare. Sei sopra e cinque sotto, distanziate l’una dall’altra di circa dieci centimetri.
No! Non farlo! Non...
Non fece in tempo a concludere la frase che l’uomo avviò il macchinario. Le seghe iniziarono a roteare, mentre si salivano e scendevano, riproducendo in tutto e per tutto il movimento di una bocca durante la masticazione. Una bocca con denti decisamente pericolosi. Il nastro iniziò a scorrere verso quelle fauci metalliche. Il clangore degli ingranaggi riecheggiava nella cantina. Pochi secondi dopo i bambini vennero inghiottiti dalla lame partendo dai piedi. Si percepì perfettamente il rumore delle ossa che si polverizzavano, sembrava il suono amplificato di quando si trapana un dente. Brandelli di carne schizzarono come proiettili in giro per la cantina, finendo addosso alle pareti e alla madre. Le urla dei bambini erano così strazianti che i lamenti dell’inferno al confronto sembravano i cori degli angeli.
Quando entrambi i bambini furono divorati dalla macchina, il padre estrasse da essa un catino, nel quale c’erano i resti del malefico esperimento. Verso il contenuto in un imbuto provvisto di filtro inserito nel collo di una damigiana e iniziò il travaso. Il sangue riempì la bottiglia di vetro trasparente con suo colore cremisi. L’uomo tolse l’imbuto e rigettò nel catino i pezzi di pelle e ossa sopravvissuti al trattamento della macchina. Verso un po’ di sangue all’interno di un bicchiere, lo assaggiò e poi lo versò in bocca alla moglie.
Dimmi, non è ottimo?
In quell’istante riaprii gli occhi.
Il tavolo scomparve e in fondo alla stanza apparve una porta.
La stanza numero tre mi attendeva.