Stanza #3
Osservai la porta per qualche minuto.
Alcuni pensieri iniziarono a farsi largo nella mia mente, come energumeni in mezzo a un gruppo di bambini. Come poteva tutto questo essere collegato a mio nonno? Non ricordavo molto di lui. Non avevo dubbi sul fatto che fosse stato un grande scrittore anche se solo per un momento troppo breve. La fama l’aveva rovinato e mia nonna Alissa l’aveva salvato. Col passare del tempo si era arreso e aveva smesso di scrivere. Eccetto che per me, il suo unico nipote. Rimuginai ancora un po’ sul passato di nonno Martyn, poi rinunciai. Non sapendo dove cercare sarebbe stato impossibile trovare una soluzione. Dovevo proseguire. Varcai la soglia della stanza numero due, mi arrampicai sulla scala a pioli posta all’esterno e giunsi di fronte all’accesso della tappa successiva. La porta svettava davanti a me imponente. Riuscivo a percepirne la malvagità al solo sguardo. Il metallo era diverso dagli altri, arrugginito e in alcuni punti addirittura corroso. Persino i corpi attorno agli stipiti presentavano segni di corrosione. Piaghe nere spuntavano a chiazze sulla loro pelle. Due gemelli, disegnati in rilievo sulla porta reggevano un orologio di ferro. Le lancette erano entrambe ferme sul 3. Per la prima volta fui davvero terrorizzato all’idea di afferrare la maniglia, immaginavo scottasse come le fiamme dell’inferno. Nella mia mente fui sicuro di perdere la mano. Mi sfilai la maglietta, l’avvolsi intorno alla maniglia e aprii la porta di scatto. Non successe nulla. Dalla porta aperta usciva un odore nauseante, un misto di sangue, carne marcia e sudore. Dovetti portarmi la maglietta alla bocca, per riuscire a respirare senza vomitare. Entrai sperando di rimanerci il meno possibile, altrimenti avrai rigettato persino l’anima. L’interno era completamente buio, un mantello di tenebra imprigionato in quattro mura. La porta si richiuse con forza alle mie spalle e la voce metallica parlò. Fu diversa questa volta. Nelle prime due stanze aveva parlato in inglese, questa volta parlò in tedesco. Dedussi che il discorso fosse lo stesso, dal Willkommen iniziale e il Drei poco dopo. Non vi mentirò dicendo che non diedi peso a quel fattore, anzi mi raggelò il sangue. Quella stanza era davvero diversa dalle prime due. Tuttavia, non ebbi il tempo di pensarci troppo. Qualche istante dopo la voce metallica la luce si accese e prima che potessi rendermene conto fui aggredito. Caddi disteso sotto il peso dell’assalitore. Istintivamente provai a liberarmi ma non ci fu verso. Lo guardai in faccia e un pugno di nausea mi piombò sullo stomaco. La pelle dell’uomo era completamente dilaniata e marcita. Alcune larve bianche camminavano in fila indiana, salendo dal collo fino a scomparire all’interno della bocca. Mi afferrò per le spalle, cominciando a scuotermi con mani deformi, secche e insanguinate.
Aiutami. Ti prego aiutami. Aiutami. Aiutami. Aiutami.
Nell’isteria del suo discorso mi sputò addosso le larve che poco prima si era avventurate nella sua bocca. Voltai lo sguardo dall’altra parte e ricacciai in gola un conato di vomito. Dopo avermi scosso ancora un paio di volte l’uomo mi lasciò e cominciò a piangere disperato. Non c’era alcuna traccia di sanità mentale in quel pianto. La ragione di quell’uomo doveva essere stata trucidata anni prima, forse addirittura secoli. Cominciò a dimenarsi istericamente, gridando che aveva bisogno di aiuto. Gridò così tanto che la voce si tramutò in un verso animalesco e straziante, come due gatti che litigano nella notte.
E’ colpa mia. Mia. Mia. Mia. Iniziò a gridare. Le hanno ammazzate per colpa mia. Mia moglie, mia figlia, la mia dolcissima figlia. Fatte a pezzi per colpa mia.
L’ultima A si trasformò un urlo spezzato a metà dalle lacrime. Approfittai della crisi dell’uomo per allontanarmi il più possibile. Tremavo. La paura e la nausea non facilitavano di certo i miei pensieri, tuttavia riuscì a capire che quell’uomo era stato divorato dai sensi di colpa. Rimasi fermo a guardare l’evolversi della situazione, conscio del fatto che ero prigioniero in quella stanza. Il sudore scendeva gelido dalla mia fronte, scorreva lunga le guance fino a fermarsi nel collo. D’istinto mi rannicchiai in me stesso, cingendomi le ginocchia contro il petto con le braccia, come un bambino che è appena stato messo in punizione. L’uomo si buttò per terra e iniziò a dimenarsi. Afferrava con le mani alcuni lembi di pelle marcia e li scagliava contro le pareti. Subito dopo la ferita ribolliva e si rigenerava. Estrasse un coltellino dalla tasca dei pantaloni. Conficco la lama in profondità nella gola e lacerò la carne con un colpo secco. Una cascata di sangue eruttò dalla ferita riversandosi sui vestiti. L’uomo gettò in terra il coltello e infilò le mani all’interno dello squarcio, nel tentativo di tenerlo aperto. La ferita si richiuse attorno le mani bloccandole.
Hai visto? Gridò l’uomo guardando nella mia direzione. Tirò con forza, scarnificandosi nuovamente la gola, per liberare le mani.
Questa fottutissima Torre non mi lascia morire. Sono anni che ci sto provando senza riuscirci. Guardati intorno cazzo. Il mio rimpianto sta corrodendo tutto, ma sta merda di Torre non mi lascia morire. Ma tu…tu forse puoi aiutarmi. Sei un ospite, non un generatore, quindi potresti riuscire a uccidermi.
Avanzò verso di me, trascinandosi a fatica. Nonostante il corpo in decomposizione e la voce rotta e animalesca i suoi occhi brillavano. Riuscì a percepire la luce della speranza dentro di essi. Quell’uomo desiderava morire più di qualsiasi altra cosa. Sarebbe stato disposto a tutto per di trovarsi tra le braccia della morte. Uccidimi, uccidimi, uccidimi, continuava a gridare mentre strisciava verso di me. Mi alzai di scattò e tentai di scappare. Afferrai la maniglia della porta da cui ero entrato e tirai con tutte le mie forze senza che smuoverla di un solo millimetro. Caddi sulle ginocchia e piansi. Non volevo ucciderlo. Dubbi ancestrali cominciarono a penetrare nella mia mente come siringhe riempite di tenebra. Cos’era più sbagliato? Ucciderlo o lasciarlo vivere? E soprattutto, se non l’avessi ucciso sarei potuto uscire da questa maledetta stanza? Afferrai il coltello che aveva lasciato cadere, sollevai il braccio e lo calai con forza. Lui sorrise.
Mi bloccai e lasciai cadere il coltello. Non ce la faccio, sussurrai all’uomo disteso al suolo.
La speranza nei suoi occhi mutò prima in collera e poi in odio. Si rialzò di scatto e mi aggredì.
Fallo, fallo porca puttana, fallo o ti ucciderò con le mie mani.
Cominciò a colpirmi al volto con le mani insanguinate. Sollevai le braccia nel tentativo di ripararmi e lui mi assestò un ginocchiata nei coglioni. Vidi la stanza tramutarsi in vortice bianco, mentre i testicoli e l’addome iniziarono a pulsare come impazziti. Respirare divenne improvvisamente difficile, quasi impossibile. La bocca era spalancata e cercava di ingoiare aria senza però riuscirsi. Temetti di perdere i sensi. L’istinto di sopravvivenza prese il controllo della mente e del mio corpo. L’adrenalina entrò in circolo nel mio sangue come veleno. Cerca a tastoni il coltello e dopo averlo trovato iniziai conficcarlo in faccia all’uomo. Lui iniziò a ridere di gusto e mi lasciò fare.
Uccidimi, si cazzo uccidimi, uccidimi.
Gioia e follia si mescolarono nel tono della sua voce che riempì la stanza. L’insieme di tutte quelle cose, ruppe qualcosa al mio interno. L’istinto di sopravvivenza diventò furia omicida. Il volto dell’uomo cominciava a scomparire sotto il sangue delle ferite, mentre la lama entrava ed usciva solenne dalla sua carne. Conclusi conficcandogli il coltello in un occhio. Guardai il manico in avorio scintillare sotto la luce. Il mio corpo era stremato e si abbandonò al suolo. Respiravo affannosamente, disteso in un letto di sangue. L’uomo era accanto a me. Era morto. Sperai che avesse finalmente trovato la pace.
La voce metallica parlò (sempre in tedesco) e la porta che conduceva al piano superiore comparì. Stavolta non aspettai, non volevo stare un attimo di più in quella fottutissima stanza. Mi alzai e raggiunsi la porta spalancandola e richiudendola in fretta una volta fuori. Respirai a pieni polmoni. Per quanto l’aria sapesse di morte anche all’esterno, per via dei cadaveri che ricoprivano la struttura, era come aria di montagna paragonata a quella all’interno della stanza numero 3. Stavo per salire al piano di sopra quando dalla porta alle mie spalle un urlò straziato strappò il silenzio come una falce maledetta.
No. Non di nuovo. No…
Non aveva trovato la pace.
Scrollai le spalle sorridendo. La stanza numero 4 aspettava…
Alcuni pensieri iniziarono a farsi largo nella mia mente, come energumeni in mezzo a un gruppo di bambini. Come poteva tutto questo essere collegato a mio nonno? Non ricordavo molto di lui. Non avevo dubbi sul fatto che fosse stato un grande scrittore anche se solo per un momento troppo breve. La fama l’aveva rovinato e mia nonna Alissa l’aveva salvato. Col passare del tempo si era arreso e aveva smesso di scrivere. Eccetto che per me, il suo unico nipote. Rimuginai ancora un po’ sul passato di nonno Martyn, poi rinunciai. Non sapendo dove cercare sarebbe stato impossibile trovare una soluzione. Dovevo proseguire. Varcai la soglia della stanza numero due, mi arrampicai sulla scala a pioli posta all’esterno e giunsi di fronte all’accesso della tappa successiva. La porta svettava davanti a me imponente. Riuscivo a percepirne la malvagità al solo sguardo. Il metallo era diverso dagli altri, arrugginito e in alcuni punti addirittura corroso. Persino i corpi attorno agli stipiti presentavano segni di corrosione. Piaghe nere spuntavano a chiazze sulla loro pelle. Due gemelli, disegnati in rilievo sulla porta reggevano un orologio di ferro. Le lancette erano entrambe ferme sul 3. Per la prima volta fui davvero terrorizzato all’idea di afferrare la maniglia, immaginavo scottasse come le fiamme dell’inferno. Nella mia mente fui sicuro di perdere la mano. Mi sfilai la maglietta, l’avvolsi intorno alla maniglia e aprii la porta di scatto. Non successe nulla. Dalla porta aperta usciva un odore nauseante, un misto di sangue, carne marcia e sudore. Dovetti portarmi la maglietta alla bocca, per riuscire a respirare senza vomitare. Entrai sperando di rimanerci il meno possibile, altrimenti avrai rigettato persino l’anima. L’interno era completamente buio, un mantello di tenebra imprigionato in quattro mura. La porta si richiuse con forza alle mie spalle e la voce metallica parlò. Fu diversa questa volta. Nelle prime due stanze aveva parlato in inglese, questa volta parlò in tedesco. Dedussi che il discorso fosse lo stesso, dal Willkommen iniziale e il Drei poco dopo. Non vi mentirò dicendo che non diedi peso a quel fattore, anzi mi raggelò il sangue. Quella stanza era davvero diversa dalle prime due. Tuttavia, non ebbi il tempo di pensarci troppo. Qualche istante dopo la voce metallica la luce si accese e prima che potessi rendermene conto fui aggredito. Caddi disteso sotto il peso dell’assalitore. Istintivamente provai a liberarmi ma non ci fu verso. Lo guardai in faccia e un pugno di nausea mi piombò sullo stomaco. La pelle dell’uomo era completamente dilaniata e marcita. Alcune larve bianche camminavano in fila indiana, salendo dal collo fino a scomparire all’interno della bocca. Mi afferrò per le spalle, cominciando a scuotermi con mani deformi, secche e insanguinate.
Aiutami. Ti prego aiutami. Aiutami. Aiutami. Aiutami.
Nell’isteria del suo discorso mi sputò addosso le larve che poco prima si era avventurate nella sua bocca. Voltai lo sguardo dall’altra parte e ricacciai in gola un conato di vomito. Dopo avermi scosso ancora un paio di volte l’uomo mi lasciò e cominciò a piangere disperato. Non c’era alcuna traccia di sanità mentale in quel pianto. La ragione di quell’uomo doveva essere stata trucidata anni prima, forse addirittura secoli. Cominciò a dimenarsi istericamente, gridando che aveva bisogno di aiuto. Gridò così tanto che la voce si tramutò in un verso animalesco e straziante, come due gatti che litigano nella notte.
E’ colpa mia. Mia. Mia. Mia. Iniziò a gridare. Le hanno ammazzate per colpa mia. Mia moglie, mia figlia, la mia dolcissima figlia. Fatte a pezzi per colpa mia.
L’ultima A si trasformò un urlo spezzato a metà dalle lacrime. Approfittai della crisi dell’uomo per allontanarmi il più possibile. Tremavo. La paura e la nausea non facilitavano di certo i miei pensieri, tuttavia riuscì a capire che quell’uomo era stato divorato dai sensi di colpa. Rimasi fermo a guardare l’evolversi della situazione, conscio del fatto che ero prigioniero in quella stanza. Il sudore scendeva gelido dalla mia fronte, scorreva lunga le guance fino a fermarsi nel collo. D’istinto mi rannicchiai in me stesso, cingendomi le ginocchia contro il petto con le braccia, come un bambino che è appena stato messo in punizione. L’uomo si buttò per terra e iniziò a dimenarsi. Afferrava con le mani alcuni lembi di pelle marcia e li scagliava contro le pareti. Subito dopo la ferita ribolliva e si rigenerava. Estrasse un coltellino dalla tasca dei pantaloni. Conficco la lama in profondità nella gola e lacerò la carne con un colpo secco. Una cascata di sangue eruttò dalla ferita riversandosi sui vestiti. L’uomo gettò in terra il coltello e infilò le mani all’interno dello squarcio, nel tentativo di tenerlo aperto. La ferita si richiuse attorno le mani bloccandole.
Hai visto? Gridò l’uomo guardando nella mia direzione. Tirò con forza, scarnificandosi nuovamente la gola, per liberare le mani.
Questa fottutissima Torre non mi lascia morire. Sono anni che ci sto provando senza riuscirci. Guardati intorno cazzo. Il mio rimpianto sta corrodendo tutto, ma sta merda di Torre non mi lascia morire. Ma tu…tu forse puoi aiutarmi. Sei un ospite, non un generatore, quindi potresti riuscire a uccidermi.
Avanzò verso di me, trascinandosi a fatica. Nonostante il corpo in decomposizione e la voce rotta e animalesca i suoi occhi brillavano. Riuscì a percepire la luce della speranza dentro di essi. Quell’uomo desiderava morire più di qualsiasi altra cosa. Sarebbe stato disposto a tutto per di trovarsi tra le braccia della morte. Uccidimi, uccidimi, uccidimi, continuava a gridare mentre strisciava verso di me. Mi alzai di scattò e tentai di scappare. Afferrai la maniglia della porta da cui ero entrato e tirai con tutte le mie forze senza che smuoverla di un solo millimetro. Caddi sulle ginocchia e piansi. Non volevo ucciderlo. Dubbi ancestrali cominciarono a penetrare nella mia mente come siringhe riempite di tenebra. Cos’era più sbagliato? Ucciderlo o lasciarlo vivere? E soprattutto, se non l’avessi ucciso sarei potuto uscire da questa maledetta stanza? Afferrai il coltello che aveva lasciato cadere, sollevai il braccio e lo calai con forza. Lui sorrise.
Mi bloccai e lasciai cadere il coltello. Non ce la faccio, sussurrai all’uomo disteso al suolo.
La speranza nei suoi occhi mutò prima in collera e poi in odio. Si rialzò di scatto e mi aggredì.
Fallo, fallo porca puttana, fallo o ti ucciderò con le mie mani.
Cominciò a colpirmi al volto con le mani insanguinate. Sollevai le braccia nel tentativo di ripararmi e lui mi assestò un ginocchiata nei coglioni. Vidi la stanza tramutarsi in vortice bianco, mentre i testicoli e l’addome iniziarono a pulsare come impazziti. Respirare divenne improvvisamente difficile, quasi impossibile. La bocca era spalancata e cercava di ingoiare aria senza però riuscirsi. Temetti di perdere i sensi. L’istinto di sopravvivenza prese il controllo della mente e del mio corpo. L’adrenalina entrò in circolo nel mio sangue come veleno. Cerca a tastoni il coltello e dopo averlo trovato iniziai conficcarlo in faccia all’uomo. Lui iniziò a ridere di gusto e mi lasciò fare.
Uccidimi, si cazzo uccidimi, uccidimi.
Gioia e follia si mescolarono nel tono della sua voce che riempì la stanza. L’insieme di tutte quelle cose, ruppe qualcosa al mio interno. L’istinto di sopravvivenza diventò furia omicida. Il volto dell’uomo cominciava a scomparire sotto il sangue delle ferite, mentre la lama entrava ed usciva solenne dalla sua carne. Conclusi conficcandogli il coltello in un occhio. Guardai il manico in avorio scintillare sotto la luce. Il mio corpo era stremato e si abbandonò al suolo. Respiravo affannosamente, disteso in un letto di sangue. L’uomo era accanto a me. Era morto. Sperai che avesse finalmente trovato la pace.
La voce metallica parlò (sempre in tedesco) e la porta che conduceva al piano superiore comparì. Stavolta non aspettai, non volevo stare un attimo di più in quella fottutissima stanza. Mi alzai e raggiunsi la porta spalancandola e richiudendola in fretta una volta fuori. Respirai a pieni polmoni. Per quanto l’aria sapesse di morte anche all’esterno, per via dei cadaveri che ricoprivano la struttura, era come aria di montagna paragonata a quella all’interno della stanza numero 3. Stavo per salire al piano di sopra quando dalla porta alle mie spalle un urlò straziato strappò il silenzio come una falce maledetta.
No. Non di nuovo. No…
Non aveva trovato la pace.
Scrollai le spalle sorridendo. La stanza numero 4 aspettava…