Stanza #4
Ascoltai ancora per qualche istante i lamenti provenienti
dalla stanza #3. Mentirei dicendovi di sapere come stavo. Tutto in quella Torre
era così maledettamente corrotto, e piano piano rischiavo di corrompermi anch’io.
Cercavo di capire se ci fosse uno schema preciso riguardante le stanze, ma
ancora non avevo indizi a sufficienza. Se volevo scoprirne di più dovevo
proseguire. A qualsiasi costo. La mia paura si era tramutata in macabra
curiosità. Ripercorsi nella mente le prime tre stanze alla ricerca di qualsiasi
cambiamento. La prima cosa a cui pensai fu la lingua. La voce nelle prime due
stanze parlava in inglese, anche se l’accento della seconda era leggermente
diverso. Giunsi alla conclusione che poteva trattarsi dell’inglese
statunitense. La terza voce aveva parlato in tedesco. La seconda cosa che mi
tornò alla mente fu ciò che disse la persona nell’ultima stanza.
Questa fottutissima Torre non mi lascia morire. Sono anni che ci sto provando senza riuscirci. Guardati intorno cazzo. Il mio rimpianto sta corrodendo tutto, ma sta merda di Torre non mi lascia morire. Ma tu…tu forse puoi aiutarmi. Sei un ospite, non un generatore, quindi potresti riuscire a uccidermi.
Basandomi su queste parole trassi la mia prima conclusione. La Torre era senziente. Viveva di vita propria e agiva secondo una propria volontà. Lui si era definito un Generatore, quindi con tutta probabilità La Torre in qualche modo doveva nutrirsi. Quello che mi sfuggiva era il mio ruolo. Ero stato definito un Ospite. Cosa avrei dovuto fare in quanto tale? Decisi di sorvolare per il momento. Precisiamo che non fui sicuro di quelle conclusioni, d'altronde le parole che mi avevano portato in quella direzione erano uscite dalla bocca di un uomo completamente corrotto e disperato. Potevano essere vere come pure invenzioni. Tuttavia, in una situazione come quella era meglio non dare niente per scontato. Le altre differenze che notai appartenevano alle stanze. Nella prima aveva vissuto una reminiscenza, senza aver nessun contatto con le entità presenti. Nella seconda la visione era stata dovuta ad un contatto, seppur minimo, con il sangue nella tazza. Nella terza avevo provato tutto sulla mia pelle. Come se andando avanti tutto diventasse più reale. E poi? Niente. Non c’era altro in quel momento che potesse darmi delucidazioni su quella malefica struttura. Lasciai da parte le riflessioni e proseguii. Giunto davanti alla stanza numero quattro, mi accorsi di aver tralasciato la cosa più ovvia. Spesso le cose più semplici sono quelle a cui non diamo peso. Gli orologi. Ogni stanza aveva un orologio a forma di segno zodiacale sulla porta e le lancette erano entrambe bloccate sul numero rappresentato dal segno e della stanza. L’una e cinque, le due e dieci, le tre e quindici. Guardai l’orologio della stanza numero quattro e confermò ulteriormente la mia teoria. La forma era quella del Cancro e le lancette erano entrambe ferme sul quattro. Le quattro e venti. La mia mente corse verso soluzioni matematiche e paranoiche. Per quanto possiate pensare che io sia stato pazzo, corrotto da quell’ambiente maligno, o qualsiasi altra cosa, voglio illustrarvi un particolare.
Sommate le ore e i minuti e divideteli per il numero della stanza. Cosa ottenete? Sei. Uno più cinque diviso uno fa sei. Due più dieci diviso due fa sei. Tre più quindici diviso tre fa sei. Sempre e solo sei. Se contiamo il fatto che, la prima volta in cui l’entità all’interno della stanza fu interamente reale era stato nella numero tre, fino a quel momento abbiamo tre risultati. Tre volte sei. Il numero del male. Quei particolari presero posto nei miei pensieri. Quella che era iniziata come una sorta di viaggio in una Torre degli Orrori, celava un messaggio preciso. E se quel messaggio fosse stato lasciato da mio nonno per me? Un gioco creato per me e nessun altro. L’unica persona che ancora amava i suoi racconti. Un ultimo regalo, terribilmente unico e speciale.
Cacciai ogni pensiero dalla mia mente e varcai la soglia delle stanza numero quattro.
Una volta dentro, la porta dietro di me svanì in un vortice d’acqua torbida. Mi accorsi subito (non poteva essere altrimenti) che il pavimento era allagato. L’acqua non era molto profonda, arrivava appena sopra le caviglie. La voce metallica parlò. Il discorso fu sempre lo stesso, ma la lingua fu diversa. Stavolta parlò in francese. Concluso il discorso la stanza iniziò ad agire. L’acqua iniziò a turbinare, risalendomi lungo le gambe e avvolgendomi fino al collo. La temperatura nella stanza scese all’improvviso. Fu un calo così drastico che l’acqua intorno al mio corpo si congelò all’istante intrappolandomi. Faticavo a respirare e nella flebile luce della stanza riuscivo a vedere l’aria che si condensava ad ogni mio respiro. La parete davanti a me si ricoprì di ghiaccio. All’interno della lastra trasparente iniziò una sorta di proiezione.
C’era una donna bellissima, con in braccio un neonato altrettanto bello. A giudicare dall’aspetto e dall’abbigliamento, doveva essere una femmina e avere non più di quattro o cinque mesi. Entrambe avevano gli occhi blu. Quelli della bambina era particolarmente assonnati e la madre ondeggiava col proprio corpo nel tentativo di farla addormentare. Qualche minuto dopo riuscì nel proprio compito. Camminò adagio, facendo attenzione a non svegliare la piccola, fino ad una culla e la sistemò all’interno con molta cura. Tornò sui suoi passi e salutò un uomo che stava entrando in quel momento dalla porta. Sembrava più vecchio di lei di almeno una decina d’anni. Gli andò incontro per abbracciarlo. Senza degnarla di uno sguardo la scansò con un braccio, facendola finire distesa sul pavimento, poi si recò verso il frigo e prese una lattina birra. Dopo essersi accomodato sul divano, con un gesto della mano, richiamò l’attenzione della donna e le indicò il posto libero sul divano. Quando lei, senza fiatare, lo raggiunse, lui le prese la mano e se la infilò nei pantaloni. Negli occhi di lei si poteva leggere quanto fosse frustrante sottomettersi in quel modo, tuttavia continuò nel suo compito. Dopo una decina di minuti, la bambina si svegliò e cominciò a piangere. L’uomo tolse la mano e si alzò. La donna provò a fermarlo, senza risultato. La differenza fisica tra i due era notevole. Giunto accanto alla culla, sollevo per la testa la bambina e sotto gli occhi della madre gli frantumò il cranio contro il muro. Nella mia mente riecheggiò il rumore sordo delle ossa che si rompono. Il sangue tinse di rosso la parete e la donna impazzì. Volò addosso all’uomo impugnando la lattina di birra che era appartenuta a lui fino a qualche minuto prima. Prima che lui si accorgesse dell’assalto lei gli aveva sferrato un calcio esattamente dove prima aveva la mano. Poi un altro. L’uomo cadde a terra dolorante, portandosi le mani sui testicoli e lei ci si lanciò sopra per immobilizzarlo. Al momento non aveva abbastanza forze per respingere la furia della donna, che ne approfittò. Attorcigliò la lattina fino a farla rompere e iniziò a infierire con la lamiera sul viso del marito. Col primo affondo lacerò un occhio. La pelle della palpebra chiusa si lacerò di netto e la ferita vomitò sangue scuro sullo zigomo. L’uomo tentò di dimenarsi per il male, riuscendo a colpirla al volto. Il colpo fu debole. Lei tornò a infierire sul bastardo. Lacerò l’altro occhio. Gettò via la lamiera e afferrando l’uomo per i capelli cominciò a sbattergli la testa contro il pavimento, fino a quando non fu privo di sensi. Non gli bastava. Si rimise in piedi e gli calò il piede sulla gola. Sentì le ossa spezzarsi sotto i piedi nudi. Amò quel rumore e la soddisfazione che ne derivava. Lui riprese i sensi solo per morire soffocato poco dopo, sotto gli occhi deliziati e folli di lei. Quando tutto fu finito, la donna raggiunse la piccola e la prese tra le braccia. Follia e rancore le scomparirono dallo sguardo sostituiti da amore e malinconia. Pianse. Le lacrime cadevano dagli occhi, bagnando il pavimento della stanza. Nel silenzio di quel momento riuscì a sentire il ticchettio che emettevano.
La parete di ghiaccio si sgretolò, rivelando la porta che conduceva alla stanza successiva. La temperatura balzò alle stelle e il ghiaccio che mi avvolgeva cominciò a sciogliersi velocemente. Le gocce caddero emettendo lo stesso rumore delle lacrime. Pochi minuti dopo fui di nuovo libero.
Analizzai la situazione per qualche minuto, cercando di arrivare a nuove conclusioni. Dopo varie riflessioni mi fiondai verso la stanza numero cinque.
Forse avevo capito il meccanismo…la stanza successiva sarebbe stata la prova del nove.
Questa fottutissima Torre non mi lascia morire. Sono anni che ci sto provando senza riuscirci. Guardati intorno cazzo. Il mio rimpianto sta corrodendo tutto, ma sta merda di Torre non mi lascia morire. Ma tu…tu forse puoi aiutarmi. Sei un ospite, non un generatore, quindi potresti riuscire a uccidermi.
Basandomi su queste parole trassi la mia prima conclusione. La Torre era senziente. Viveva di vita propria e agiva secondo una propria volontà. Lui si era definito un Generatore, quindi con tutta probabilità La Torre in qualche modo doveva nutrirsi. Quello che mi sfuggiva era il mio ruolo. Ero stato definito un Ospite. Cosa avrei dovuto fare in quanto tale? Decisi di sorvolare per il momento. Precisiamo che non fui sicuro di quelle conclusioni, d'altronde le parole che mi avevano portato in quella direzione erano uscite dalla bocca di un uomo completamente corrotto e disperato. Potevano essere vere come pure invenzioni. Tuttavia, in una situazione come quella era meglio non dare niente per scontato. Le altre differenze che notai appartenevano alle stanze. Nella prima aveva vissuto una reminiscenza, senza aver nessun contatto con le entità presenti. Nella seconda la visione era stata dovuta ad un contatto, seppur minimo, con il sangue nella tazza. Nella terza avevo provato tutto sulla mia pelle. Come se andando avanti tutto diventasse più reale. E poi? Niente. Non c’era altro in quel momento che potesse darmi delucidazioni su quella malefica struttura. Lasciai da parte le riflessioni e proseguii. Giunto davanti alla stanza numero quattro, mi accorsi di aver tralasciato la cosa più ovvia. Spesso le cose più semplici sono quelle a cui non diamo peso. Gli orologi. Ogni stanza aveva un orologio a forma di segno zodiacale sulla porta e le lancette erano entrambe bloccate sul numero rappresentato dal segno e della stanza. L’una e cinque, le due e dieci, le tre e quindici. Guardai l’orologio della stanza numero quattro e confermò ulteriormente la mia teoria. La forma era quella del Cancro e le lancette erano entrambe ferme sul quattro. Le quattro e venti. La mia mente corse verso soluzioni matematiche e paranoiche. Per quanto possiate pensare che io sia stato pazzo, corrotto da quell’ambiente maligno, o qualsiasi altra cosa, voglio illustrarvi un particolare.
Sommate le ore e i minuti e divideteli per il numero della stanza. Cosa ottenete? Sei. Uno più cinque diviso uno fa sei. Due più dieci diviso due fa sei. Tre più quindici diviso tre fa sei. Sempre e solo sei. Se contiamo il fatto che, la prima volta in cui l’entità all’interno della stanza fu interamente reale era stato nella numero tre, fino a quel momento abbiamo tre risultati. Tre volte sei. Il numero del male. Quei particolari presero posto nei miei pensieri. Quella che era iniziata come una sorta di viaggio in una Torre degli Orrori, celava un messaggio preciso. E se quel messaggio fosse stato lasciato da mio nonno per me? Un gioco creato per me e nessun altro. L’unica persona che ancora amava i suoi racconti. Un ultimo regalo, terribilmente unico e speciale.
Cacciai ogni pensiero dalla mia mente e varcai la soglia delle stanza numero quattro.
Una volta dentro, la porta dietro di me svanì in un vortice d’acqua torbida. Mi accorsi subito (non poteva essere altrimenti) che il pavimento era allagato. L’acqua non era molto profonda, arrivava appena sopra le caviglie. La voce metallica parlò. Il discorso fu sempre lo stesso, ma la lingua fu diversa. Stavolta parlò in francese. Concluso il discorso la stanza iniziò ad agire. L’acqua iniziò a turbinare, risalendomi lungo le gambe e avvolgendomi fino al collo. La temperatura nella stanza scese all’improvviso. Fu un calo così drastico che l’acqua intorno al mio corpo si congelò all’istante intrappolandomi. Faticavo a respirare e nella flebile luce della stanza riuscivo a vedere l’aria che si condensava ad ogni mio respiro. La parete davanti a me si ricoprì di ghiaccio. All’interno della lastra trasparente iniziò una sorta di proiezione.
C’era una donna bellissima, con in braccio un neonato altrettanto bello. A giudicare dall’aspetto e dall’abbigliamento, doveva essere una femmina e avere non più di quattro o cinque mesi. Entrambe avevano gli occhi blu. Quelli della bambina era particolarmente assonnati e la madre ondeggiava col proprio corpo nel tentativo di farla addormentare. Qualche minuto dopo riuscì nel proprio compito. Camminò adagio, facendo attenzione a non svegliare la piccola, fino ad una culla e la sistemò all’interno con molta cura. Tornò sui suoi passi e salutò un uomo che stava entrando in quel momento dalla porta. Sembrava più vecchio di lei di almeno una decina d’anni. Gli andò incontro per abbracciarlo. Senza degnarla di uno sguardo la scansò con un braccio, facendola finire distesa sul pavimento, poi si recò verso il frigo e prese una lattina birra. Dopo essersi accomodato sul divano, con un gesto della mano, richiamò l’attenzione della donna e le indicò il posto libero sul divano. Quando lei, senza fiatare, lo raggiunse, lui le prese la mano e se la infilò nei pantaloni. Negli occhi di lei si poteva leggere quanto fosse frustrante sottomettersi in quel modo, tuttavia continuò nel suo compito. Dopo una decina di minuti, la bambina si svegliò e cominciò a piangere. L’uomo tolse la mano e si alzò. La donna provò a fermarlo, senza risultato. La differenza fisica tra i due era notevole. Giunto accanto alla culla, sollevo per la testa la bambina e sotto gli occhi della madre gli frantumò il cranio contro il muro. Nella mia mente riecheggiò il rumore sordo delle ossa che si rompono. Il sangue tinse di rosso la parete e la donna impazzì. Volò addosso all’uomo impugnando la lattina di birra che era appartenuta a lui fino a qualche minuto prima. Prima che lui si accorgesse dell’assalto lei gli aveva sferrato un calcio esattamente dove prima aveva la mano. Poi un altro. L’uomo cadde a terra dolorante, portandosi le mani sui testicoli e lei ci si lanciò sopra per immobilizzarlo. Al momento non aveva abbastanza forze per respingere la furia della donna, che ne approfittò. Attorcigliò la lattina fino a farla rompere e iniziò a infierire con la lamiera sul viso del marito. Col primo affondo lacerò un occhio. La pelle della palpebra chiusa si lacerò di netto e la ferita vomitò sangue scuro sullo zigomo. L’uomo tentò di dimenarsi per il male, riuscendo a colpirla al volto. Il colpo fu debole. Lei tornò a infierire sul bastardo. Lacerò l’altro occhio. Gettò via la lamiera e afferrando l’uomo per i capelli cominciò a sbattergli la testa contro il pavimento, fino a quando non fu privo di sensi. Non gli bastava. Si rimise in piedi e gli calò il piede sulla gola. Sentì le ossa spezzarsi sotto i piedi nudi. Amò quel rumore e la soddisfazione che ne derivava. Lui riprese i sensi solo per morire soffocato poco dopo, sotto gli occhi deliziati e folli di lei. Quando tutto fu finito, la donna raggiunse la piccola e la prese tra le braccia. Follia e rancore le scomparirono dallo sguardo sostituiti da amore e malinconia. Pianse. Le lacrime cadevano dagli occhi, bagnando il pavimento della stanza. Nel silenzio di quel momento riuscì a sentire il ticchettio che emettevano.
La parete di ghiaccio si sgretolò, rivelando la porta che conduceva alla stanza successiva. La temperatura balzò alle stelle e il ghiaccio che mi avvolgeva cominciò a sciogliersi velocemente. Le gocce caddero emettendo lo stesso rumore delle lacrime. Pochi minuti dopo fui di nuovo libero.
Analizzai la situazione per qualche minuto, cercando di arrivare a nuove conclusioni. Dopo varie riflessioni mi fiondai verso la stanza numero cinque.
Forse avevo capito il meccanismo…la stanza successiva sarebbe stata la prova del nove.