Stanza #9
Abbandonai la stanza numero otto in fretta e furia.
Cominciavo a sentirmi soffocare, come se mi fossi trovato all’interno di una clessidra gigante, con la sabbia fino al collo. Potevo percepire il tempo scorrere ed esaurirsi nella malignità di quel luogo.
Mi stavo avvicinando alla fine.
L’aria all’esterno era diventata ancora più calda e irrespirabile. Presto avrei dovuto percorrere quei brevi percorsi trattenendo il respiro per non rischiare di vomitare. La scala a pioli, come ogni altra volta, si trovava di pochi metri sulla destra. La scala era tiepida e più salivo più il calore diventava insopportabile. Raggiunsi la stanza numero nove.
La porta aveva il colore rosso del ferro quando è rovente. Il quadrante dell’orologio era sulla schiena equina del Sagittario. Segnava le nove e quaranta cinque. Involontariamente rifeci l’operazione. Nove più quarantacinque, diviso nove. Sei. Percepivo un calore disumano provenire dall’interno di quella stanza. Avrei potuto persino credere che ci fosse rinchiuso dentro il Sole.
La sola idea di afferrare la maniglia sembrava ustionarmi la mano. Eppure non avevo altra scelta. Così la ruotai in fretta e poi spalancai la porta con la punta del piede. Una volta dentro si richiuse alle mie spalle con un rumore sordo.
Fiumi di sudore cominciarono a scorrere lungo tutto il mio corpo. Alcune gocce mi finirono negli occhi facendoli lacrimare. La stanza era vuota e rovente. Come un gigantesco forno. Pensai alla strega di Hansel e Gretel e sperai di non fare la stessa fine. Come in ogni altra stanza la voce metallica riecheggiò come un tuono spezzando il silenzio. Questa volta riconobbi la lingua, era spagnolo.
La parete di fronte a me si alzò, rivelando una parte nascosta della stanza. Come avevo immaginato all’interno di essa c’era un grossa fornace. La sua “bocca” era sigillata e misurava almeno un metro. Un uomo calvo con un elegante completo blu notte, arricchito da una cravatta bianca, entrò da una porta sulla destra, che fino a quel momento non avevo notato. Il suo volto, illuminato dalla luce, mostrava un vario mix di emozioni. Nella mano destra reggeva un sacco nero di iuta, riempito fino al limite. A giudicare dall’inclinazione che subiva il corpo massiccio dell’uomo, quel sacco doveva essere davvero molto pesante. Giunse vicino alla bocca della fornace e lasciò cadere il sacco. Una testa scivolò fuori , rotolando verso di me. Era poco più grossa del mio pugno e accuramente privata dei capelli e delle sopracciglia. Aveva occhi chiari e innocenti. Occhi che mai nella vita avrebbero dovuto piangere o vedere cose orribili, eppure erano colmi di dolore e paura. L’uomo si accorse della testa e venne verso di me per raccoglierla. Dalla fornace iniziarono a provenire strani rumori, come di bestie affamate che annusano l’odore della carne attraverso lo spiraglio di una porta. Lui alzò lo sguardo nella mia direzione, ma fui come invisibile. I suoi occhi attraversarono il mio corpo, guardando oltre i confini di ogni cosa. Tornò alla fornace e allungò una mano per aprirla. Aveva quasi afferrato la maniglia quando si bloccò. Aveva paura si vedeva benissimo. Ne fui immensamente felice. Vedere nei suoi occhi la stessa paura che c’era in quelli del bambino, mi dava un senso di giustizia. I versi si fecero sempre più forti e insistenti. L’uomo fece due passi indietro e poi si allungò in avanti, fino al limite delle sue possibilità, tentando di aprire la bocca della fornace standole il più lontano possibile. Qualunque cosa ci fosse stata dentro lo terrorizzava a morte. Ci vollero alcuni minuti prima che l’uomo si decidesse ad aprire la fornace. Quando la “bocca” si spalancò, ricadendo verso il basso, una vampata di fiamme innondò la stanza, come il respiro di un drago. L’uomo si rannicchiò per terra coprendosi la testa con le braccia. Il mio istinto mi diede lo stesso impulso e meno di un secondo dopo ero nella stessa posizione. Il fuoco mi avvolse e poi scomparve. Provai solo il calore, nient’altro. Alzai la testa e mi rimisi in piedi, osservando l’uomo che nel frattempo faceva altrettanto. Dopo essersi stabilizzato sulle gambe (tremava ancora parecchio per cui non gli fu facile trovare l’equilibrio) tornò al sacco, prese la testa del bambino e la gettò nella fornace. Serpi di fuoco lottarono per divorarsela. Lui tirò fuori un'altra testa e gettò anche’essa all’interno. Poi un'altra e un’altra ancora. Ne lanciò almeno una ventina. Cercava di stare il più lontano possibile, prendendo la mira e poi lanciando la testa all’interno della bocca, come un giocatore di basket durante un allenamento. Osservavo la scena in silenzio. La mia mente era sempre più lontana per via di quel caldo assurdo. Sentivo le forze abbandonarmi ad ogni secondo che passava. Gli occhi erano velati dall’umidità e dalla debolezza. Non sarei riuscito a resistere ancora per molto in quell’inferno. Mi accovacciai per terra per risparmiare più energie possibili e tornai a fissare l’uomo. Potevo leggere nei suoi occhi la paura che aveva di sbagliare e, come spesso accade in queste situazioni, sbagliò. La testa del bambino colpì con un rumore sordo la parte superiore della fornace di ghisa e ricadde sul pavimento. In quell’istante una gigantesca serpe di fuoco schizzò fuori dalla sua “prigione” addentando la testa. I denti della belva erano cosi incandescenti che la pelle del piccolo iniziò a colare come la cera di una candela. L’uomo si ritrasse di colpo e cominciò a correre verso la porta dalla quale era entrato. Una seconda serpe balenò fuori e lo addentò alla caviglia destra, facendolo cadere. Lui si mosse convulsamente tentando di scalciare via quella bestia, ma i suoi calci passarono attraverso a quel corpo fatto di fiamme. Urlò. La prima serpe si voltò come incuriosita da quanto stava accadendo e lasciò perdere la testa per avventarsi anch’essa sull’uomo. Serrò i denti sulla caviglia libera e iniziò a tirare come un cane che cerca di rubare un osso ad un altro cane. Le gambe dell’uomo si divaricarono ai limiti del possibile prima di strapparsi con uno schiocco secco. Le grida di dolore dell’uomo furono strazianti ma brevi. Il dolore fu così grande che ci vollero pochi secondi prima che perdesse i sensi. Tuttavia il tempo per riprenderli fu altrettanto breve. Le serpi aveva abbandonato le gambe mozzate sul pavimento, ormai inondato dal sangue che sgorgava a fiumi dalla ferita, e si erano avventate sulle braccia. L’uomo cercò in tutti i modi li liberarle ma non ci riuscì e ben presto fecero la stessa fine della gambe. Quello che accadde dopo lo vidi soltanto come un’immagine sfocata dalla nebbia della debolezza che ormai aveva offuscato i miei occhi. Tuttavia non ho dubbi su quanto accadde. Le serpi cominciarono a strappare pezzi di carne dal corpo mutilato dell’uomo, come facendo a gara a chi ne mangiava di più. Calavano frenetici i loro denti sulla povera vittima. Masticavano ansimando, formando un perverso miscuglio di suoni. Quando dell’uomo non rimase più nulla tornarono al sacco. Strapparono la iuta con i denti e cominciarono a cibarsi del contenuto, litigando come sempre. Osservavo le teste dei bambini scomparire piano piano nelle loro bocche, fondendosi e colando come bava dalle mascelle roventi. Il calore in quella stanza stava diventando letale. Entro poco sarei sicuramente morto. Cercai di avvicinarmi il più possibile ai resti del sacco. Morire per morire tanto valeva farlo nel tentativo di salvarmi. Avrei cercato di prendere una testa e lanciarla nella fornace, sperando di vederle correre dietro al loro cibo. Le serpi sembrarono non notarmi, nello stesso modo in cui non mi aveva notato l’uomo. Mi venne in mente che probabilmente anche il sacco era immateriale, proprio come loro e l’uomo. Decisi comunque di provare. Quando una testa fu a portata di mano, la afferrai di scatto e…
Avvertii la pelle delicata e calda del bambino sotto le mie mani. Era reale. Era fottutamente reale. Con la stessa semplicità con cui mi era venuto alla mente il pensiero opposto mi ritrovai a pensare che forse tutto era reale e mi ritrassi di scatto, giusto in tempo per sentire i denti incandescenti sfiorarmi la mano. Guardai la “bocca” della fornace per un istante e tirai. Per un momento mi sentii come un giocatore di basket che lascia partire il tiro allo scadere del tempo. Un tiro che può valere la vittoria. Nel mio caso la vita. Osservai la testa staccarsi dalla mia mano per iniziare a volteggiare nell’aria. Lo vidi quasi a rallentatore come accade in queste scene nei film.
Centro.
Le serpi balzarono dentro al forno all’inseguimento della testa. Feci affidamento sulle mie ultime forze e mi lanciai a chiudere la bocca della loro prigione. In quel momento tutto svanì e comparve davanti a me la porta che conduceva alla stana numero 10. Mi ci fiondai contro e la varcai.
Mi lasciai cadere sulla piattaforma metallica all’esterno.
Aria…avevo bisogno di aria.
Mentre riprendevo fiato analizzai la situazione. Secondo i miei calcoli la stanza numero nove doveva avere qualcosa in comune con la numero e invece nulla.
Tuttavia…