Ultimo Giorno
Ho perso, lo ammetto.
Quello spregevole pezzo di merda che porta il nome di Richard Lancaster ha vinto. Ha giocato con me e la mia vita e ha vinto. Non c’è più nulla che io possa fare, solo arrendermi al mio destino. Sono stato tutto il pomeriggio (sempre che sia effettivamente pomeriggio) a pensare cosa abbia trasformato quell’uomo in uno spietato e cinico assassino. Quale tragedia ha infettato la sua mente? Quale dolore circonda il suo cuore?
Credo sia uno dei pochi casi della vita dove una domanda a infinite risposte. Potrebbe essergli accaduta ogni cosa. Per quanto riguarda me, non credo che farei mai qualcosa del genere. E soprattutto non penso di avergli mai fatto un torto. Non ricordo nemmeno di averlo mai visto, prima di quella fottutissima e stramaledettissima sera. Quanto vorrei poter tornare indietro nel tempo, uscire dal locale e girare a destra. Non a sinistra, passando per quel vialetto desolato illuminato sporadicamente da lampioni vecchi di eoni. Quel vicolo, dove ho incontrato lui. Girare a destra, invece che a sinistra. Forse sarebbe potuto bastare quello. In maniera ironica è stata la “svolta” della mia vita. Anche se nessuno potrà mai saperlo con certezza. Avrei potuto incontrarlo ugualmente.
L’unica certezza è che ora sono qui e ho perso.
Penso di sapere cosa contenga la scatola. Voglio scriverlo prima di aprirla, sperando che possa essere d’aiuto per qualche altro eventuale ospite, anche se la sola idea mi riempie di brividi. Se avrò fortuna e questo diario verrà trovato da qualcuno, probabilmente non ci sarà un mio successore. Se invece non dovesse essere così, sicuramente ce ne saranno altri.
Credo che nella scatola ci sia la morte. Non so sotto quale forma o quale sensazione. Potrebbe esserci semplicemente una pistola con un proiettile. Premi il grilletto e fine di tutto. O un coltello. Un bel taglio netto sulle vene o in gola e tanti saluti alla vita. Ma dubito sia qualcosa di normale. Non dopo quello che ho visto questa notte. Riesco a immaginarmi tutto, tranne le cose normali. Vedo fiamme nere danzare intorno alla mia pelle, mentre il volto si deforma contratto dallo sforzo di urlare per il dolore. Un dolore acuto e un grido muto. Vedo la pelle bruciare lentamente, accartocciarsi come un velo di plastica sul fuoco. Sento persino l’odore nauseabondo che emana. Vedo la stanza mentre svanisce davanti ai miei occhi, avvolta in un fumo grigio e nero. Fauci rosse e gocciolanti si nascondono dietro di esso, mi bramano. Sento la loro fame dentro l’anima, come i loro i denti fossero affondati nel mio spirito ancora prima di venire al mondo. Un terrore atavico, rimasto nascosto dietro un sipario fatto di tenebre e cristallo. Nascosto dal gioco di riflessi, ma sempre presente.
La mia realtà è ormai caduta a pezzi. Le macerie di ciò che ero pesano come vittime sulla coscienza. Ora, mentre scrivo queste ultime parole, tutto mi torna al mente. Tutti i fallimenti, le gioie e le sofferenze. Voi non sapete quasi nulla di me. Nessuno sa quasi nulla di me. Me ne andrò, senza lasciare il minimo ricordo. Solo queste poche pagine saranno testimoni del fatto che anch’io sono esistito. Probabilmente nemmeno tu, che in questo momento stai leggendo le mie ultime parole, hai un briciolo di compassione per me. Com’è triste la vita…
Fino a ieri, prima che quell’informe abominio mi venisse a trovare, non mi sarei mai sognato di dire queste parole. Eppure eccomi qui. Tutti cambiamo davanti alla Morte. Quel mantello nero, elegantemente posato sulle lucide ossa d’avorio, e quella falce d’argento che brilla come la luna nel cielo. Nessuno rimane impassibile dinnanzi a tanta maestosità. E terrore.
Molti credono siano facile abbracciare la morte. Lo credevo anch’io. Ora mi accorgo che non lo è affatto. Dilungherò quest’ultima storia il più possibile, per allungare il tempo che rimane. Spike è qui accanto a me e mi guarda coi suoi occhietti vispi. Credo sappia che non manca molto. Il tempo sta per scadere. Sento il sonno arrivare, deducendo che la sera sia ormai vicina. Non posso sopravvivere ad un'altra notte. Mi ucciderebbe e non voglio dargli questa soddisfazione. Lo farò da solo, costi quel che costi. Vi confesserò una cosa.
Ho paura di morire, ma ho ancor più paura di rimanere vivo.
L’ultima cosa che dovevo fare è stata fatta. Non una singola cosa all’interno della casa è intatta. Eccezione per le pareti. Quelle non volevano venire giù. Ho spaccato le sedie sbattendole contro il tavolo, socchiudendo gli occhi per evitare le schegge. Strano come uno che abbia deciso di morire si continui a preoccupare di queste cose. Il cervello umano è pieno di misteri. Ho ribaltato il tavolo, prendendolo a calci fino a quando le gambe di legno non si sono spezzate in metà e i miei piedi imprecavano per il dolore. Con le massicce gambe del tavolo ho distrutto il frigorifero e ogni altra cosa all’interno di esso e della casa. I vetri dei quadri esplodevano in mille pezzi, mentre la tela dietro di essi si squarciava. I cocci dei vasi frantumati schizzavano in aria come rondini terrorizzate, prima di ricadere sul pavimento. Le assi di legno dei mobili si spaccavano dove i chiodi antichi e resistenti le tenevano fissate. Le ho afferrate, tirando con forza fino a strapparle. Ho immaginato fossero le sue braccia o le sue gambe. Quanto avrei voluto lo fossero davvero. Sentire la caviglia di quello sporco figlio di puttana stretta nella mia presa e tirare. Tirare con tutta la forza che ho ancora in corpo, dare sfogo a quel rancore immenso che porto dentro e osservare la pelle che si allunga fino a strapparsi. Mi dispiace solo che qui dentro non potrei sentire le sue urla, ma mi accontenterei di osservare le espressioni di dolore contrargli il volto.
Niente ora è intatto. Frammenti di legno, porcellana e vetro giacciono sul pavimento come soldati caduti in battaglia. Un cimitero di cimeli. La cosa più assurda è che tutto l’atto della distruzione è avvenuto nel massimo silenzio, come se gli oggetti fossero ad una messa santa e si vergognassero di urlare il loro dolore. Tutto è distrutto. Fatta eccezione per la scatola. Essa é ancora lì, appoggiata al ripiano interno del frigorifero. Stavolta però non c’è l’anta metallica a separarci. Quella è stata scardinata. Ora che tutto è distrutto, ora che il mio dovere è stato fatto, devo solo aprirla.
La fisso, scrutandola con la mente e non solo con gli occhi. Cerco di immaginarmi cosa mi aspetta, ma è impossibile. Potrebbe esserci di tutto. L’unica cosa di cui sono certo è la morte. Quella non mancherà. La sento pesare sullo sguardo, come la vita di qualcuno nelle mani di un chirurgo. Non è mai facile decidere certe cose. Le mani tremano, il cuore mi salta su e giù per la gola, il respiro non da l’impressione di voler tornare. Perle gelide si sudore corrono lungo la schiena e giù dalla fronte. Percepisco ogni secondo al millisecondo. Li sento scorrere dentro la mia anima lenti e inesorabili. Mi avvicino. Mi basterebbe allungare la mano per poterla toccare, tuttavia il ricordo di averla sentita vibrare mi paralizza. Eppure devo farmi coraggio. Non posso tirarmi indietro ora.
La fessura. Mi stavo dimenticando della fessura. Getterò il diario fuori da essa. Forse è un segno del destino che sia apparsa proprio pochi giorni fa. Forse qualcuno troverà questo diario e brucerà finalmente la casa, mettendo fine a tutto. Nessuno subirà più questa tortura. Porterò nell’altra stanza la scatola e dopo aver gettato il diario nella fessura la aprirò. In modo rapido, senza pensarci. Un colpo e via.
Ok. Sono nell’altra stanza. Non potete immaginare la sensazione disgustosa che ho provato nel tenere la scatola in mano. Pulsava e vibrava, come un cuore. Solo fatto di cartone. Era persino umida al tatto. I dubbi su cosa possa esserci all’interno aumentano a dismisura.
Ora lo scoprirò.
MI RACCOMANDO TU CHE TROVERAI QUESTO DIARIO BRUCIA LA CASA. NON ESITARE. PERFAVORE.
Addio.
.- -.. -.. .. --- .- -.. -.. .. --- .- -.. -.. .. --- .- -.. -.. .. ---
Il diario volò fuori dalla fessura, roteando come un boomerang illuminato dal chiarore argentato della luna. Era una notte splendida, una di quelle notte che si ricorda per sempre. E Richard ne fu contento. Gli piaceva leggere sotto il cielo stellato. Invisibile, ma sempre presente aveva assistito ad ogni movimento del povero Philip, accompagnandolo con il suo sadico sorriso. Si sentiva meschino. Meschino e fottutamente felice di esserlo. Philip era colpevole, così come lo era ogni persona del mondo. Il suo sogno aveva un prezzo e le persone erano le monete con cui doveva pagarlo.
Si sedette proprio sotto la fessura, attendendo il momento. Mancava davvero poco ormai. Riusciva a vedere la mano di Philip avvicinarsi alla scatola e più era vicina più il suo sorriso aumentava. Era uno di quei sorrisi spontanei, quelli che non riusciamo a trattenere.
Philip non fu così veloce, ma alla fine l’aprì. Appena la scatola fu aperta, tutto iniziò.
Tutti i rumori che fino ad allora erano stati assorbiti esplosero come una colossale bomba sonora. Grida estenuanti lacerarono l’aria circostante come lame di collera, lacrime roventi si versarono sul pavimento della casa accompagnate dal sangue che sgorgava a fiumi dalle orecchie di Philip. Ogni rumore, ogni suono, ogni parola che fino a quel momento era rimasta muta ora gridava dentro i suoi timpani. I vetri dei quadri, la porcellana dei vasi e il legno dei mobili. Ogni cosa. Le lacrime rigarono il volto di Philip. Soffriva e non sapeva come sentirsi. Triste o felice. Aveva desiderato i rumori, dopo quel lungo silenzio, e ora loro erano lì. Aveva desiderato che tutto smettesse ed ora sarebbe finito. Quindi doveva essere felice. Eppure perché non lo era?
Sentì dentro la testa tutte le parole che aveva pronunciato. Insulti, lamenti, preghiere. Erano bastati sette giorni per rendergli quasi del tutto estranea la sua stessa voce. Il cervello gli si stava comprimendo sotto la morsa fatale di quel suono cacofonico. Non sarebbe sopravvissuto ancora per molto. Osservava la stanza sbiadire attimo dopo attimo, celandosi dietro l’alone nero della morte. A breve tutto sarebbe diventato nero. La luce sarebbe scomparsa del tutto. E dopo solo le tenebre. Guardò Spike. Lui aveva portato un pizzico di felicità in quell’agonia. Ora che la scatola era aperta, ora che i suoni stavano fuoriuscendo come il sangue da un arteria recisa, forse anche lui avrebbe potuto parlare. Avrebbe potuto chiamare il suo topolino per nome, per l’unica ed ultima volta.
Spike…sussurrò con le poche forze che aveva in corpo e prima di spegnersi per sempre riuscì a guardarlo negli occhi per un ultimo fugace attimo. Spike ricambiò lo sguardo. Nei suoi occhi c’era affetto e comprensione. Aveva sentito, aveva udito le ultime parole di Philip e le avrebbe ricordate per sempre…
Richard ora era sdraiato. Il suo sguardo correva verso le ultime parole del diario. Gli fa piacere essere così odiato. Perché l’odio che gli umani provavano per lui non era minimamente paragonabile a quello che lui provava per loro. Era come paragonare una goccia d’acqua all’oceano. Banale, ma reale. Ascoltava quel miscuglio di suoni e rumori e grida che fuoriusciva dalla casa. Stupende. Un concerto spettacolare, una melodia unica, dolorante e maligna. Sentiva la purezza dell’odio, della disperazione e della tristezza dentro quei suoni. Emozioni purissime e pregiate. Uniche e preziose. Nulla paragonabile al concerto di Shelly Redbird. Philip era diverso. Lui era uno dei migliori Generatori che avrebbe potuto trovare. Il concerto giunse alla fine. Il cuore di Richard cominciò a sussultare come quello di un bambino che aspetta la notte di natale per aprire i regali. Era emozionato e felice.
Allungò la mano verso la fessura. Spike uscì da essa, corse lungo il braccio di Richard fino a raggiungere l’orecchio.
Spike, gli sussurrò, riproducendo perfettamente la voce di Philip, come un registratore in carne ed ossa.
Richard ebbe un brivido e uno spasmo, come se avesse avuto un orgasmo. Un sorriso colmo di gioia ed eccitazione si disegnò sul suo volto cinereo rivoltò verso la luna. Le ultime parole di uomo che sta morendo in preda al dolore.
Per lui non esisteva suono migliore…
Quello spregevole pezzo di merda che porta il nome di Richard Lancaster ha vinto. Ha giocato con me e la mia vita e ha vinto. Non c’è più nulla che io possa fare, solo arrendermi al mio destino. Sono stato tutto il pomeriggio (sempre che sia effettivamente pomeriggio) a pensare cosa abbia trasformato quell’uomo in uno spietato e cinico assassino. Quale tragedia ha infettato la sua mente? Quale dolore circonda il suo cuore?
Credo sia uno dei pochi casi della vita dove una domanda a infinite risposte. Potrebbe essergli accaduta ogni cosa. Per quanto riguarda me, non credo che farei mai qualcosa del genere. E soprattutto non penso di avergli mai fatto un torto. Non ricordo nemmeno di averlo mai visto, prima di quella fottutissima e stramaledettissima sera. Quanto vorrei poter tornare indietro nel tempo, uscire dal locale e girare a destra. Non a sinistra, passando per quel vialetto desolato illuminato sporadicamente da lampioni vecchi di eoni. Quel vicolo, dove ho incontrato lui. Girare a destra, invece che a sinistra. Forse sarebbe potuto bastare quello. In maniera ironica è stata la “svolta” della mia vita. Anche se nessuno potrà mai saperlo con certezza. Avrei potuto incontrarlo ugualmente.
L’unica certezza è che ora sono qui e ho perso.
Penso di sapere cosa contenga la scatola. Voglio scriverlo prima di aprirla, sperando che possa essere d’aiuto per qualche altro eventuale ospite, anche se la sola idea mi riempie di brividi. Se avrò fortuna e questo diario verrà trovato da qualcuno, probabilmente non ci sarà un mio successore. Se invece non dovesse essere così, sicuramente ce ne saranno altri.
Credo che nella scatola ci sia la morte. Non so sotto quale forma o quale sensazione. Potrebbe esserci semplicemente una pistola con un proiettile. Premi il grilletto e fine di tutto. O un coltello. Un bel taglio netto sulle vene o in gola e tanti saluti alla vita. Ma dubito sia qualcosa di normale. Non dopo quello che ho visto questa notte. Riesco a immaginarmi tutto, tranne le cose normali. Vedo fiamme nere danzare intorno alla mia pelle, mentre il volto si deforma contratto dallo sforzo di urlare per il dolore. Un dolore acuto e un grido muto. Vedo la pelle bruciare lentamente, accartocciarsi come un velo di plastica sul fuoco. Sento persino l’odore nauseabondo che emana. Vedo la stanza mentre svanisce davanti ai miei occhi, avvolta in un fumo grigio e nero. Fauci rosse e gocciolanti si nascondono dietro di esso, mi bramano. Sento la loro fame dentro l’anima, come i loro i denti fossero affondati nel mio spirito ancora prima di venire al mondo. Un terrore atavico, rimasto nascosto dietro un sipario fatto di tenebre e cristallo. Nascosto dal gioco di riflessi, ma sempre presente.
La mia realtà è ormai caduta a pezzi. Le macerie di ciò che ero pesano come vittime sulla coscienza. Ora, mentre scrivo queste ultime parole, tutto mi torna al mente. Tutti i fallimenti, le gioie e le sofferenze. Voi non sapete quasi nulla di me. Nessuno sa quasi nulla di me. Me ne andrò, senza lasciare il minimo ricordo. Solo queste poche pagine saranno testimoni del fatto che anch’io sono esistito. Probabilmente nemmeno tu, che in questo momento stai leggendo le mie ultime parole, hai un briciolo di compassione per me. Com’è triste la vita…
Fino a ieri, prima che quell’informe abominio mi venisse a trovare, non mi sarei mai sognato di dire queste parole. Eppure eccomi qui. Tutti cambiamo davanti alla Morte. Quel mantello nero, elegantemente posato sulle lucide ossa d’avorio, e quella falce d’argento che brilla come la luna nel cielo. Nessuno rimane impassibile dinnanzi a tanta maestosità. E terrore.
Molti credono siano facile abbracciare la morte. Lo credevo anch’io. Ora mi accorgo che non lo è affatto. Dilungherò quest’ultima storia il più possibile, per allungare il tempo che rimane. Spike è qui accanto a me e mi guarda coi suoi occhietti vispi. Credo sappia che non manca molto. Il tempo sta per scadere. Sento il sonno arrivare, deducendo che la sera sia ormai vicina. Non posso sopravvivere ad un'altra notte. Mi ucciderebbe e non voglio dargli questa soddisfazione. Lo farò da solo, costi quel che costi. Vi confesserò una cosa.
Ho paura di morire, ma ho ancor più paura di rimanere vivo.
L’ultima cosa che dovevo fare è stata fatta. Non una singola cosa all’interno della casa è intatta. Eccezione per le pareti. Quelle non volevano venire giù. Ho spaccato le sedie sbattendole contro il tavolo, socchiudendo gli occhi per evitare le schegge. Strano come uno che abbia deciso di morire si continui a preoccupare di queste cose. Il cervello umano è pieno di misteri. Ho ribaltato il tavolo, prendendolo a calci fino a quando le gambe di legno non si sono spezzate in metà e i miei piedi imprecavano per il dolore. Con le massicce gambe del tavolo ho distrutto il frigorifero e ogni altra cosa all’interno di esso e della casa. I vetri dei quadri esplodevano in mille pezzi, mentre la tela dietro di essi si squarciava. I cocci dei vasi frantumati schizzavano in aria come rondini terrorizzate, prima di ricadere sul pavimento. Le assi di legno dei mobili si spaccavano dove i chiodi antichi e resistenti le tenevano fissate. Le ho afferrate, tirando con forza fino a strapparle. Ho immaginato fossero le sue braccia o le sue gambe. Quanto avrei voluto lo fossero davvero. Sentire la caviglia di quello sporco figlio di puttana stretta nella mia presa e tirare. Tirare con tutta la forza che ho ancora in corpo, dare sfogo a quel rancore immenso che porto dentro e osservare la pelle che si allunga fino a strapparsi. Mi dispiace solo che qui dentro non potrei sentire le sue urla, ma mi accontenterei di osservare le espressioni di dolore contrargli il volto.
Niente ora è intatto. Frammenti di legno, porcellana e vetro giacciono sul pavimento come soldati caduti in battaglia. Un cimitero di cimeli. La cosa più assurda è che tutto l’atto della distruzione è avvenuto nel massimo silenzio, come se gli oggetti fossero ad una messa santa e si vergognassero di urlare il loro dolore. Tutto è distrutto. Fatta eccezione per la scatola. Essa é ancora lì, appoggiata al ripiano interno del frigorifero. Stavolta però non c’è l’anta metallica a separarci. Quella è stata scardinata. Ora che tutto è distrutto, ora che il mio dovere è stato fatto, devo solo aprirla.
La fisso, scrutandola con la mente e non solo con gli occhi. Cerco di immaginarmi cosa mi aspetta, ma è impossibile. Potrebbe esserci di tutto. L’unica cosa di cui sono certo è la morte. Quella non mancherà. La sento pesare sullo sguardo, come la vita di qualcuno nelle mani di un chirurgo. Non è mai facile decidere certe cose. Le mani tremano, il cuore mi salta su e giù per la gola, il respiro non da l’impressione di voler tornare. Perle gelide si sudore corrono lungo la schiena e giù dalla fronte. Percepisco ogni secondo al millisecondo. Li sento scorrere dentro la mia anima lenti e inesorabili. Mi avvicino. Mi basterebbe allungare la mano per poterla toccare, tuttavia il ricordo di averla sentita vibrare mi paralizza. Eppure devo farmi coraggio. Non posso tirarmi indietro ora.
La fessura. Mi stavo dimenticando della fessura. Getterò il diario fuori da essa. Forse è un segno del destino che sia apparsa proprio pochi giorni fa. Forse qualcuno troverà questo diario e brucerà finalmente la casa, mettendo fine a tutto. Nessuno subirà più questa tortura. Porterò nell’altra stanza la scatola e dopo aver gettato il diario nella fessura la aprirò. In modo rapido, senza pensarci. Un colpo e via.
Ok. Sono nell’altra stanza. Non potete immaginare la sensazione disgustosa che ho provato nel tenere la scatola in mano. Pulsava e vibrava, come un cuore. Solo fatto di cartone. Era persino umida al tatto. I dubbi su cosa possa esserci all’interno aumentano a dismisura.
Ora lo scoprirò.
MI RACCOMANDO TU CHE TROVERAI QUESTO DIARIO BRUCIA LA CASA. NON ESITARE. PERFAVORE.
Addio.
.- -.. -.. .. --- .- -.. -.. .. --- .- -.. -.. .. --- .- -.. -.. .. ---
Il diario volò fuori dalla fessura, roteando come un boomerang illuminato dal chiarore argentato della luna. Era una notte splendida, una di quelle notte che si ricorda per sempre. E Richard ne fu contento. Gli piaceva leggere sotto il cielo stellato. Invisibile, ma sempre presente aveva assistito ad ogni movimento del povero Philip, accompagnandolo con il suo sadico sorriso. Si sentiva meschino. Meschino e fottutamente felice di esserlo. Philip era colpevole, così come lo era ogni persona del mondo. Il suo sogno aveva un prezzo e le persone erano le monete con cui doveva pagarlo.
Si sedette proprio sotto la fessura, attendendo il momento. Mancava davvero poco ormai. Riusciva a vedere la mano di Philip avvicinarsi alla scatola e più era vicina più il suo sorriso aumentava. Era uno di quei sorrisi spontanei, quelli che non riusciamo a trattenere.
Philip non fu così veloce, ma alla fine l’aprì. Appena la scatola fu aperta, tutto iniziò.
Tutti i rumori che fino ad allora erano stati assorbiti esplosero come una colossale bomba sonora. Grida estenuanti lacerarono l’aria circostante come lame di collera, lacrime roventi si versarono sul pavimento della casa accompagnate dal sangue che sgorgava a fiumi dalle orecchie di Philip. Ogni rumore, ogni suono, ogni parola che fino a quel momento era rimasta muta ora gridava dentro i suoi timpani. I vetri dei quadri, la porcellana dei vasi e il legno dei mobili. Ogni cosa. Le lacrime rigarono il volto di Philip. Soffriva e non sapeva come sentirsi. Triste o felice. Aveva desiderato i rumori, dopo quel lungo silenzio, e ora loro erano lì. Aveva desiderato che tutto smettesse ed ora sarebbe finito. Quindi doveva essere felice. Eppure perché non lo era?
Sentì dentro la testa tutte le parole che aveva pronunciato. Insulti, lamenti, preghiere. Erano bastati sette giorni per rendergli quasi del tutto estranea la sua stessa voce. Il cervello gli si stava comprimendo sotto la morsa fatale di quel suono cacofonico. Non sarebbe sopravvissuto ancora per molto. Osservava la stanza sbiadire attimo dopo attimo, celandosi dietro l’alone nero della morte. A breve tutto sarebbe diventato nero. La luce sarebbe scomparsa del tutto. E dopo solo le tenebre. Guardò Spike. Lui aveva portato un pizzico di felicità in quell’agonia. Ora che la scatola era aperta, ora che i suoni stavano fuoriuscendo come il sangue da un arteria recisa, forse anche lui avrebbe potuto parlare. Avrebbe potuto chiamare il suo topolino per nome, per l’unica ed ultima volta.
Spike…sussurrò con le poche forze che aveva in corpo e prima di spegnersi per sempre riuscì a guardarlo negli occhi per un ultimo fugace attimo. Spike ricambiò lo sguardo. Nei suoi occhi c’era affetto e comprensione. Aveva sentito, aveva udito le ultime parole di Philip e le avrebbe ricordate per sempre…
Richard ora era sdraiato. Il suo sguardo correva verso le ultime parole del diario. Gli fa piacere essere così odiato. Perché l’odio che gli umani provavano per lui non era minimamente paragonabile a quello che lui provava per loro. Era come paragonare una goccia d’acqua all’oceano. Banale, ma reale. Ascoltava quel miscuglio di suoni e rumori e grida che fuoriusciva dalla casa. Stupende. Un concerto spettacolare, una melodia unica, dolorante e maligna. Sentiva la purezza dell’odio, della disperazione e della tristezza dentro quei suoni. Emozioni purissime e pregiate. Uniche e preziose. Nulla paragonabile al concerto di Shelly Redbird. Philip era diverso. Lui era uno dei migliori Generatori che avrebbe potuto trovare. Il concerto giunse alla fine. Il cuore di Richard cominciò a sussultare come quello di un bambino che aspetta la notte di natale per aprire i regali. Era emozionato e felice.
Allungò la mano verso la fessura. Spike uscì da essa, corse lungo il braccio di Richard fino a raggiungere l’orecchio.
Spike, gli sussurrò, riproducendo perfettamente la voce di Philip, come un registratore in carne ed ossa.
Richard ebbe un brivido e uno spasmo, come se avesse avuto un orgasmo. Un sorriso colmo di gioia ed eccitazione si disegnò sul suo volto cinereo rivoltò verso la luna. Le ultime parole di uomo che sta morendo in preda al dolore.
Per lui non esisteva suono migliore…